Il 21 Novembre 2014 tornano gli appuntamenti di Legalità Organizzata, l'iniziativa dell'ateneo senese sui temi della difesa della legalità e dei rapporti tra società, politica e criminalità organizzata. Il principale protagonista di questo incontro che si terrà al Polo Mattioli alle ore 10 è il magistrato Nicola Gratteri. Partecipa anche Andrea De Gennaro, comandante della Guardia di Finanza in Toscana. Modera Giovanni Negri del Sole 24 Ore. L'iniziativa è organizzata, unitamente al progetto LO, che coordino assieme a USienaWelcome, dalla Prefettura di Siena e dalla Azienda Agricola di Suvignano Per i primi mesi del 2014 il COPEI (Osservatorio CIRCaP su Elites Politiche e Istituzioni) offre l'opportunità per alcuni studenti di collaborare a due laboratori che svilupperanno altrettante ricerche empiriche. La prima è relativa allo studio del cambiamento dell'agenda di policy in Italia attraverso l'analisi dei media. La seconda ricerca è relativa allo studio della conflittualità concernente l'attività dei governi a partire dal 2012.
La collaborazione ai programmi formativi potrà essere utilizzata dagli studenti (laurea triennale e magistrale) per ottenere i crediti di tirocinio e stage previsti dal proprio ordinamento e per preparare eventuali tesi di laurea su argomenti analoghi. Informazioni sui laboratori in preparazione e sulle caratteristiche dei tirocini possono essere scaricate qui, Tengo molto a questa foto, scattata quando lasciai momentaneamente il CIRCaP per la presidenza della facoltà, nel 2009. Il CIRCaP è la mia casa e in qualche misura la mia famiglia. Il CIRCaP è uno dei motivi per cui ancora oggi mi ostino a lavorare a Siena. Per Siena. Ce ne sono anche altri, progetti di ateneo o singoli amici con un nome e un cognome. Alcuni non erano al CIRCaP quel giorno. Altri lavorano in altre sedi dell'ateneo. Ma è dentro il CIRCaP che ho trovato le motivazioni per andare avanti con i miei progetti, per tutti questi anni. Tornare a casa non è mai stato scontato, almeno per me. Condividere le scelte non significa comprenderle sempre. Recentemente ho anche pensato che rinunciare ad alcuni benefici e forse ad una vita più rilassata, a cinquanta anni, può essere un errore. Realizzare per esempio che l'impegno sul dottorato fiorentino-senese che ho contribuito a mettere in piedi dovrà terminare per le scelte istituzionali diverse degli atenei non è stato uno scherzo. E' giusto porsi tali questioni se si crede al proprio lavoro e soprattutto se ci si sforza di immaginare il futuro della propria disciplina, guardando oltre il margine limitato del proprio mandato. I dubbi ci sono sempre. E' giusto averne. E sono sicuro che torneranno. Ma la sensazione di gustare un ritorno "a casa" al CIRCaP è sempre stata netta. Così, alla fine di una giornata piena di pensieri, la notizia del nuovo stimolante impegno di ricerca su H2020 ha immediatamente rigenerato tale sensazione. Il nome del progetto, invenzione di Nico Conti, è EUENGAGE. Un nome che richiama la possibilità di coinvolgere gente. Tornare a giocare un ruolo, ma anche di avere legami sentimentali forti. Let's engage with CIRCaP again! Non ci credevo che questo tizio, Tonelli è il suo nome, potesse aver detto davvero quelle parole. Invece il suo lancio ANSA, poi celebrato con il trionfale annuncio "la posizione del SAP è stata ripresa da molte agenzie e quotidiani" mi conferma che avevo letto correttamente. Il SAP, per bocca di Tonelli, ha oggi sancito - in margine alla sentenza di assoluzione per mancanza di prove degli imputati nel processo per l'omicidio Cucchi - che non è necessario cercare responsabili di una morte violenta. Perchè le vittime di morta violenta non sono tutte uguali, come si legge in queste righe. Non conosco le carte processuali e non mi sono troppo avvicinato a questa storia che fin dall'inizio mi ha trasmesso angoscia e senso di impotenza. Non voglio aggiungere niente al riguardo. Ho solo da dire che un comunicato come questo, in un giorno come questo, esprime la totale mancanza di senso dello stato, oltre che un uso strumentale della storia e delle storie. Che c'entra Raciti? che centra la Fallaci? Era in gioco nel processo la reputazione dei servitori dello stato o la ricerca dei responsabili di un fatto di violenza? E in una situazione simile, prego il signore che non succeda mai più, possiamo davvero permetterci di non cercare i responsabili? Non voglio credere che in una democrazia che ha quasi 70 anni la legge si collochi all'opposto della legalità. Non solo perchè so benissimo che le forze di polizia sono in larghissima parte rappresentate da posizioni, anche istituzionali e sindacali, non collimanti con le affermazioni fascistoidi e intimidatorie del SAP. Ma perchè confido che anche tra gli associati a quel sindacato, anche tra quelli che oggi festeggiano l'assoluzione di colleghi e amici, prevalga l'equazione legge=legalità. La legge è considerata maggioritariamente necessaria, e se esiste una qualsiasi legge è del tutto auspicabile che l'attore che si adopera per il suo rispetto possa contare una totale credibilità. Ma se la legge, o meglio che la deve far rispettare, si sente libera di imporre i propri convincimenti morali sopra la pelle dei propri concittadini, allora è la legge a negare la legalità . Vogliamo davvero considerare delle differenze nelle responsabilità di chi, che ne so io, violenta una prostituta rispetto a un'altra categoria di donne? Vogliamo pensare che essere violenti con i vagabondi o con gli ubriachi possa essere considerato un comportamento meno immorale rispetto ad altre forme di violenza privata? Chiediamo a questo Tonelli di tacere, per carità. Per evitare che la reputazione di tutte le forze dell'ordine e dello stato stesso scenda pericolosamente sotto il livello di guardia. Il 12 Ottobre finisce l’esperienza dei Presidenti di provincia demo-eletti e in generale della rappresentanza diretta al livello territoriale intermedio. Dirà il tempo se questa riforma, sicuramente confusa e influenzata dalle narrazioni tipiche del nostro tempo, restituirà un sistema meno costoso e ugualmente affidabile. Facile prevedere che saranno necessari altri interventi di riassetto, e che probabilmente altre soluzioni di meso-livello emergeranno per coordinare le politiche dopo la probabile scomparsa delle province dalla costituzione. Certamente, l’elezione degli organi di governo nelle provincie ora è davvero storia. Ne racconteremo le vicende in tante salse retoriche. Ed è ragionevole pensare che conosceremo tante altre storie di mala-amministrazione. Dovremo tuttavia ricordare le donne e gli uomini di tutti i colori della politica che dal 1951 hanno messo un po’ del loro tempo al servizio della comunità. La stragrande maggioranza di essi non si è certo arricchita di politica. Al contrario, tutti questi eletti hanno spesso rinunciato a coltivare altre imprese, e altri affetti, per onorare il proprio senso di appartenenza istituzionale. Si dirà che il loro lavoro, soprattutto quello delle articolazioni della rappresentanza – le commissioni e i pletorici consigli – è rimasto quasi sempre lettera morta. È vero, ed è per questo che il cambiamento è legittimo. Tuttavia l’esperienza e il civismo accumulati in quel mare di chiacchiere che è la politica ha migliorato quelle donne e quegli uomini. Hanno imparato il confronto, il rispetto dell’avversario e il buon senso delle istituzioni. In molte realtà, quelle donne e quegli uomini hanno potuto sostenere proprio grazie al loro modesto ruolo istituzionale una legittimità democratica che lo stato non riusciva a saldare. Dobbiamo portare rispetto per questa esperienza, e cercare di focalizzarla anche per l’aiuto che le provincie hanno dato ad un paese dove la democrazia era tutt’altro che scontata, e che presenta ancora paurosi vuoti di legalità.
Negli ultimi venti anni, l’esperienza delle elezioni dirette ha ulteriormente sviluppato la funzione pedagogica e comunicativa degli enti locali. E se le istituzioni della provincia – ente intermedio difficilmente collocabile dai cittadini in una scala di potere e responsabilità – sono rimaste certamente schiacciate tra la delega dell’amministrazione “cittadina” e la scelta dei veri “governanti” regionali e nazionali, abbiamo visto all’opera molti nuovi politici, capaci, imprenditivi. Non solo casta, insomma. Non solo politicanti senza mestiere parcheggiati nell’ennesimo congegno di auto-perpetuazione del ceto politico. Sarà importante parlare di cosa resta di questa esperienza di democrazia locale. Studiarne le implicazioni. Sono pronto a scommettere che, nel mare di sprechi e di negligenze che hanno connotato l’intera classe dirigente italiana anche dopo lo scossone degli anni 1992-1994, troveremo delle storie interessanti di personalità politiche che sono cresciute e che hanno fatto crescere le rispettive comunità. Sono pronto a scommettere che in questi ruoli troveremo alcuni dei (rari) politici giovani che hanno imparato a gestire le politiche pubbliche in modo moderno. Troveremo alcune delle (troppe poche) politiche donne che hanno fatto benissimo, mostrando la propria efficacia proprio in un ente pubblico dove magari erano state relegate dall’egoismo degli aspiranti leader maschi che avevano preferito collocazioni con maggiori risorse e maggiore visibilità. Se le informazioni che raccoglieremo da domani mi faranno perdere la scommessa, potremo scrivere con certezza che la chiusura del capitolo provincie non ci lascia alcun insegnamento. Se invece la scommessa la vinco, potremo continuare ugualmente nelle riforme, tenendo presente che le storie di civismo e la formazione di bravi amministratori vanno custodite con cura, e non vanno confuse con l’immancabile spazzatura che la democrazia produce.effettuare modifiche. Il corso di Sistema Politico Italiano inizia al Polo Mattioli Mercoledì 1 Ottobre alle 17.
Heinrich Best è stato ed è uno degli studiosi più importanti per la mia formazione e per la mia carriera. Gli devo molto, anche sul piano personale. La generosa ospitalità che mi offrì a Jena circa venti anni fa – all’epoca collaboravo al progetto Eurelite che Heinrich aveva creato assieme a Maurizio Cotta – fu la mia prima esperienza “post-doc” presso una istituzione straniera. Il fatto di aver discusso con lui, talvolta in modo plateale, sulla concezione di elitismo democratico, sui rapporti elite-democrazia e anche sulla natura dell’Unione Europea non ha mai scalfito l’affetto e la profonda ammirazione che gli serbo, sentimenti che credo siano da lui ampiamente ricambiati. Anche Heinrich tra poco andrà in pensione e qui a Jena gli hanno preparato una festa-convegno stimolante. Grandi nomi - teorici della sociologia delle élite e politologi empiristi. Si parte da quella roba mosca-pareto-michels che talvolta appare scontata ma che ha senza dubbio ancora grande presa nel pensiero liberale. E le implicazioni sono palpabili non solo sulle nostre sottili questioni di ricerca –immagino del tutto irrilevanti per i più – ma sul futuro della democrazia rappresentativa e sull’impatto esercitato dalle èlite contemporanee. Molti sono gli insegnamenti che ho tratto negli anni dai lavori di questi studiosi e sono ancora convinto che il confronto tra analisi empirica della politica ed dimensione elitista della democrazia resta fondamentale. Etichetto “dimensione elitista” la ricerca della valentior pars – persone capaci di ridurre i gap enormi creati sino ad oggi dalla società liberale e costruire pari opportunità. Per me dunque la dimensione elitista della democrazia è una pratica che non serve una visione normativa di democrazia delle élite, ma che parte dall’osservazione della necessità di tutte le varianti democratiche (anzi, di tutti i regimi complessi) di funzionare sul modello dei migliori. Continuerò a discutere con Best di questo e di altro. Ma è fondamentale che oggi ci chiediamo tutti laicamente se e quanto è il caso di sconvolgere l’agenda di ricerca. Arrivando addirittura a proporre la cancellazione delle élite come unità di ricerca. La conclusione, condivisa, è che non si pone un problema di addio alle élite. Si pone però, questo credo sia una priorità, un problema di sostenibilità della dimensione elitista della democrazia. La presente crisi non ha soltanto affievolito i legami tra comunità e autorità. Ha messo in discussione i valori della democrazia rappresentativa e le sue istituzioni. Per questo è necessario affrontare con spirito innovativo lo studio della capacità rappresentativa delle nuove élite e considerare l’utilizzo di modalità alternative di selezione e formazione delle stesse. Non è la fine della dimensione elitista della democrazia ma dobbiamo mettere in conto profonde rivisitazioni dei nostri paradigmi a partire da domande di ricerca simili al passato: quanto ci assogliano le élite? Come possono essere formate? Come rispondono e come si controlla la loro risposta? La sociologia politica deve continuare a cogliere informazioni e nessi causali che possono aiutare a interpretare i cambiamenti senza dubbio apprezzabili che ancora ci aspettano. Heinrich Best sarà ancora un punto di riferimento – non mi pare infatti affatto orientato a mollare la presa. A lui i migliori auguri di buon proseguimento di lavoro. La tentazione di scrivere sulla riforma del Senato, per uno che dopo tutto si è sempre occupato di parlamento e parlamentarismo, è forte. Ho resistito sino ad ora, e credo che continuerò a farlo, in nome di due ragionamenti semplici:
1. la discussione sul Senato doveva e dovrebbe essere contestualizzata rispetto agli obiettivi complessivi dell'intervento sulla costituzione e più in generale sul sistema di governo. Molti protagonisti del dibattito, ognuno con una propria specifica posta in gioco, tendono a scordarselo, seguiti da giornalisti parlamentaristi presi unicamente dagli effetti di questa battaglia sulla congiuntura politica e sulla leadership di Renzi. Forse è il caso di riconoscere ad una sola Ministra, Maria Elena Boschi, autrice di un primo testo di riforma che a me francamente non era piaciuto, di aver spesso richiamato, a dispetto di un premier che insiste solo sul tasto del "non ci fermeranno", l'esigenza di una lettura complessiva dell'architettura costituzionale che andiamo a modificare. 2. In secondo luogo, mi pare vi sia già molto rumore di chiacchiere su questa riforma, e siccome non vorrei contribuire ad un ennesimo "rumore per nulla" attendo la riforma del Senato e in generale il ddl costituzionale alla prova dei fatti: è evidente che soltanto il passaggio alla Camera determinerà la vera agenda di questa riforma, poichè un emendamento anche minimo obbligherebbe una nuova corrida incandescente a Palazzo Madama, dove circa 320 senatori si troveranno a decidere in modo definitivo sul proprio futuro politico, oltre che sul futuro della nostra costituzione. Fatte queste precisazioni, dopo il voto di venerdì è tuttavia giunto il momento di dire se quanto prospettato dal Senato è un avanzamento, un punto di approdo o soltanto unO dei tanti salti nel vuoto a cui siamo stati abituati in questi venti anni di riforme permanenti e riformatori incompetenti. Provo a valutare lo stato dell'arte in poche parole: se la giostra della riforma si fermasse al testo licenziato dal Senato, avremmo una nuova forma di bicameralismo. Certamente asimmetrico data la composizione e i poteri delle due camere, ma pur sempre un bicameralismo. Con queste norme l'Italia si collocherebbe infatti piuttosto in alto in un ranking dei poteri bicamerali presentati dai parlamenti democratici. Verso la direzione del rapporto "paritario" non vanno soltanto gli emendamenti apportati in commissione sul nome (che torna Senato della repubblica) e sulla esplicita specificazione del rapporto paritario per le materie di competenza (art. 55). Anche alcune norme sostantivamente cogenti come quelle relative ai poteri ispettivi, ed alla sostanziale immunità reintrodotta anche per i senatori (art. 68) rimangono generose con il Senato. Senza contare, è bene precisarlo, che il ddl prevedeva già importanti poteri di decisione (l'attività legislativa in fin dei conti più importante, ovvero la riforma costituzionale, e l'elezione del capo dello stato) e di iniziativa legislativa. Questo dovrebbe costituire una buona garanzia per tacitare i dubbi di tutti quelli che parlano di golpe e di snaturamento del parlamentarismo. Siccome mi trovo benissimo - da sempre - nel campo dei fautori di una democrazia (moderatamente) consensuale fatta da molti "pesi e contrappesi", non mi dispiace che vi sia discussione su questi temi. Ma continuare a parlare di svolta autoritaria è davvero solo un modo per buttare una cosa seria come la riforma costituzionale in burletta, da parte di chi è interessato solo a tenere soltanto le luci accese sulla leadership di Renzi, nella speranza che tale pressione acceleri i tempi del naturale calo dei suoi consensi personali, in una prospettiva di disarcionamento. Capisco che questo tipo di strategia sia l'unica possibile per opposizioni estremistiche e anti-sistema come Lega e M5S, ma non mi è ancora chiara la strategia complessiva del PD: se la minoranza del partito non capisce l'azione del governo su economia e politiche di sviluppo (quello che dice ogni tanto Fassina per capirsi) trovi il modo di esplicitare un piano B su questi temi. Votare disuniti "soltanto un poco" ma "su tutto" forse indebolisce più l'Italia che non la leadership di Renzi. In questo mi pare di condividere Scalfari che pure si è iscritto, con il suo lungo articolo di domenica, al partito di quelli che "di qualsiasi cosa si parli, dobbiamo dare un voto a Renzi". Quindi cambio subito discorso. E riparto dal primo dei due caveat poc'anzi enunciati: come possiamo valutare da un punto di vista di sistema il ddl Boschi alla luce del voto del Senato? Chiarire che non si tratta della morte del bicameralismo e tanto meno di quella del parlamento non è sufficiente per dirsi felici di questo passaggio. Anzi, sovviene una domanda ancor più imbarazzante: a che serve questa riforma? Ripeto, le parole del premier sulla instancabile azione dei riformatori non servono a molto. Servirebbe invece capire come la funzionalità complessiva del sistema potrà trovare giovamento da questa azione. Leggendo il recente libro di Salvatore Vassallo, Liberiamo la politica, ci si fa un'idea precisa del traguardo da raggiungere: una correzione, sia pure blanda, del sistema istituzionale tradizionale nel senso di una maggiore effettività dell'azione di governo, corroborata da un parlamento snello e pungente, ovvero capace di inseguire l'esecutivo sui dossier più "caldi" e fargli sentire continuamente il proprio peso. Se vogliamo andare in questa direzione io sottoscrivo subito la legge costituzionale e magari ingollo anche un italicum che continua a non piacermi troppo, posto che non andrei a votare un partito incapace di imporsi, in caso di lista bloccata , una qualche forma di consultazione diretta, certificabile e trasparente di selezione dal basso dei candidati. Tra i tanti ritocchi più o meno insignificanti - forse una qualche rilevanza potrebbe averla la nuova disciplina dei referendum con la complessa regola del "quorum non richiesto" in caso di una quota straordinaria di firme di raccolta fissata ad 800 mila - merita ricordare che l'abolizione del CNEL e il consolidamento di quanto già di fatto ottenuto con l'abrogazione chirurgica delle istituzioni dell'amministrazione provinciale costituiscono significativi passi in avanti in una logica di azione ergonomica sull'architettura del sistema. Tuttavia, dobbiamo ancora registrare che il disegno di cui sopra rimane ancora confuso, e il ddl da solo al massimo può rappresentare solo un piccolo passetto che non illumina certamente una vera direzione. Non spetta a me concludere, come fanno molti, che questa è la prova di una strategia dilatoria mossa solo dal bisogno di acquistare tempo n una situazione di stallo politico, o arguire come fanno altri che Renzi sta soltanto pagando lentamente a Berlusconi il prezzo di una sostanziale spartizione. Le dietrologie non sono il mio mestiere. Però mancano all'appello una serie di cose oltre alla legge elettorale e ad una azione effettiva sull'economia (che assumo sarà svelata dalla prossima legge di stabilità). Provo a riassumere i pezzi ad oggi mancanti: - sul piano costituzionale temo che l'azione sul titolo quinto non sia sufficiente a superare il caos della multi-dimensionalità dei livelli e degli organi di governo (e la conseguente sovrapposizione di ruoli e poteri concorrenti). Una strada possibile è quella di un intervento già in seconda lettura su riaccorpamento di regioni e abolizione dello statuto speciale, ma non vedo segnali in questa direzione; - sul piano legislativo, due interventi da troppo tempo annunciati come la legge organica sui partiti (con norme stringenti su statuti e procedure di democrazia interna) e legge organica anti-corruzione arginerebbero senz'altro i rischi di un uso opportunistico delle poche risorse pubbliche oggi necessarie per l'organizzazione della vita democratica. Sarebbe fantastico se queste norme arrivassero con un unico e chiaro riferimento normativo sul divieto di emolumenti cumulativi e con un tetto serio sulle pensioni di tutti gli ex servitori dello stato; - sul piano dei rapporti inter-istituzionali, dovrebbe essere realizzato un nuovo "patto di stabilità" che libera i vincoli sulle risorse appannaggio di regioni e comuni quando essi si mostrano in grado di realizzare obiettivi di semplificazione amministrativa a cominciare da quelli enumerati dal lavoro di Cottarelli. - infine, ma non ultimo, la camera dei deputati dovrebbe darci un segnale immediato di adattamento consapevole al sistema della riforma costituzionale 2014, con una revisione drastica del proprio regolamento. Tutte queste cose si possono fare in 500 giorni. Il governo dovrebbe adoperarsi per realizzarne alcune e pressare gli attori istituzionali che sono in grado di fare le altre. Altrimenti questo voto del Senato passerà alla storia come l'ennesimo balzo, anzi l'ennesimo passetto, nel vuoto. E questo ci consentirebbe di accomunare il livello di "statismo" dei riformatori a quello, ahinoi, di un qualsiasi Calderoli. Tanto rumore per nulla. Il governo ha ceduto. Dovendo intervenire sulla "quota 96", già che c'era, ha fatto saltare unilateralmente il limite dei 68 anni per il così detto pensionamento di ufficio dei professori universitari. Meglio così: intervenire con cesellature di centesimi di Pil su una questione così complessa sarebbe una goccia nel mare dal punto di vista delle prospettive occupazionali e una non risposta dal punto di vista finanziario, dato che gli emolumenti di chi va in pensione - parlo di docenti di I e II fascia - da ora al 2020-2025 rimangono alti mentre quelli successivi scenderanno di brutto comunque.
Le uniche tre azioni serie da mettere in campo parlando di politiche per l'università sono le seguenti: 1. piano straordinario per i ricercatori, dando un senso alla mitologica figura del RTD previsto dalla 240/2010; 2. Introduzione di una procedura seria di revisione dei criteri di attribuzione del tempo definito, abbassamento della retribuzione e valutazione dell'effettivo impegno del corposo numero di docenti collocatosi in questo regime; 3. introduzione di un tetto massimo pensionistico che interessi anche le pensioni più elevate degli ex professori universitari, nel contesto di una riforma che consideri attentamente i tanti benefits aquisiti in passato da molti dirigenti pubblici. Tutto il resto è da codificare nella categoria delle chiacchiere. Oggi l'università pubblica italiana sta invecchiando paurosamente, pochi fanno il lavoro "sporco" che serve a tenere in piedi la baracca. Rispetto alla popolazione accademica ufficiale, siamo ancora meno: lasciando perdere i fannulloni che pure non mancano, il bizantino sistema di procedure, che produce ancora più scartoffie di prima, è un vero antidoto per la passione. Molti colleghi preferiscono stare ai lati del tavolo, anche in considerazione della scarsa reputazione dei ruoli istituzionali, moltissimi esercitano altre professioni. Continuare a lavorare di bisturi per trovare l'età di pensionamento e il livello naturale di turnover strutturale ideale è tempo perso. E mandare a casa ora dei professori, molti dei quali bravi e motivati, senza preavviso serve solo a mettere in difficoltà gli atenei. Fine. Tuttavia, due cose vanno dette. In primo luogo, tirare una linea unica per mandare in pensione tutti alla stessa età non sarebbe stato affatto ingiusto. Dal momento che vi è una legge, la 230/2006, che ha fissato il termine a quota 68, perchè fare due pesi e N misure? In secondo luogo, dobbiamo chiarire bene chi si attiva in questi casi di ventilate riforme nella carriera e nei pensionamenti degli accademici, e perchè. Ci si attiva per tutelare la continuità dei corsi, dei dottorati, dei laboratori, della presenza italiana nella ricerca internazionale? Bene: allora si producano numeri, nomi e cognomi. Se invece ci si batte per la buonuscita o per lo scatto, allora si deve avere il coraggio di dirlo. Mi viene da pensare che se non ci pensiamo noi stessi a mostrare la natura del problema faremo una pessima figura, mostrando una corporazione assai peggiore di ciò che è nella realtà. Non siamo così di braccio corto. É bene dire che i professori universitari attualmente in servizio e nati prima del 1950 sono tecnicamente dei benestanti da sempre. Forse solo i magistrati, gli ufficiali delle forze armate e i consiglieri di stato hanno avuto un orizzonte di carriera più generoso. Si tratta infatti di un gruppo sociale andato al top della propria carriera (cioè in cattedra) molto presto, in un'età in cui oggi gli aspiranti accademici sono ancora post-studenti (sto parlando di medie ovviamente). Insomma, questa gente non ha dovuto sbattersi con dottorati e precariato vario, e comunque ha riscattato tutto il riscattabile. In larga misura, godrà di una pensione calcolata sul retributivo. E la loro base retributiva, parlo dei professori ordinari di quella generazione, è compresa "a fine corsa" tra i 5 e i 6 mila euro al mese. Io ne conosco molti di questi professori. Alcuni sono dei maestri straordinari e lavorano come pazzi, non certo per il denaro. Anche a loro potrebbe essere dunque chiesto un piccolo sacrificio economico, magari saldamente ancorato ad un piano straordinario di reclutamento che salvi la speranza di contribuire al destino della nostra università a un bel gruppo di validi studiosi "giovani" in quanto nati negli anni ottanta. Io sono sicuro che molti colleghi anche più anziani sarebbero d'accordo con me: dateci una proposta concreta sul turnover e risponderemo, isolando i più egoisti. |
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December 2017
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