Tanto rumore per nulla. Il governo ha ceduto. Dovendo intervenire sulla "quota 96", già che c'era, ha fatto saltare unilateralmente il limite dei 68 anni per il così detto pensionamento di ufficio dei professori universitari. Meglio così: intervenire con cesellature di centesimi di Pil su una questione così complessa sarebbe una goccia nel mare dal punto di vista delle prospettive occupazionali e una non risposta dal punto di vista finanziario, dato che gli emolumenti di chi va in pensione - parlo di docenti di I e II fascia - da ora al 2020-2025 rimangono alti mentre quelli successivi scenderanno di brutto comunque.
Le uniche tre azioni serie da mettere in campo parlando di politiche per l'università sono le seguenti:
1. piano straordinario per i ricercatori, dando un senso alla mitologica figura del RTD previsto dalla 240/2010;
2. Introduzione di una procedura seria di revisione dei criteri di attribuzione del tempo definito, abbassamento della retribuzione e valutazione dell'effettivo impegno del corposo numero di docenti collocatosi in questo regime;
3. introduzione di un tetto massimo pensionistico che interessi anche le pensioni più elevate degli ex professori universitari, nel contesto di una riforma che consideri attentamente i tanti benefits aquisiti in passato da molti dirigenti pubblici.
Tutto il resto è da codificare nella categoria delle chiacchiere. Oggi l'università pubblica italiana sta invecchiando paurosamente, pochi fanno il lavoro "sporco" che serve a tenere in piedi la baracca. Rispetto alla popolazione accademica ufficiale, siamo ancora meno: lasciando perdere i fannulloni che pure non mancano, il bizantino sistema di procedure, che produce ancora più scartoffie di prima, è un vero antidoto per la passione. Molti colleghi preferiscono stare ai lati del tavolo, anche in considerazione della scarsa reputazione dei ruoli istituzionali, moltissimi esercitano altre professioni. Continuare a lavorare di bisturi per trovare l'età di pensionamento e il livello naturale di turnover strutturale ideale è tempo perso. E mandare a casa ora dei professori, molti dei quali bravi e motivati, senza preavviso serve solo a mettere in difficoltà gli atenei. Fine.
Tuttavia, due cose vanno dette. In primo luogo, tirare una linea unica per mandare in pensione tutti alla stessa età non sarebbe stato affatto ingiusto. Dal momento che vi è una legge, la 230/2006, che ha fissato il termine a quota 68, perchè fare due pesi e N misure? In secondo luogo, dobbiamo chiarire bene chi si attiva in questi casi di ventilate riforme nella carriera e nei pensionamenti degli accademici, e perchè. Ci si attiva per tutelare la continuità dei corsi, dei dottorati, dei laboratori, della presenza italiana nella ricerca internazionale? Bene: allora si producano numeri, nomi e cognomi. Se invece ci si batte per la buonuscita o per lo scatto, allora si deve avere il coraggio di dirlo. Mi viene da pensare che se non ci pensiamo noi stessi a mostrare la natura del problema faremo una pessima figura, mostrando una corporazione assai peggiore di ciò che è nella realtà. Non siamo così di braccio corto.
É bene dire che i professori universitari attualmente in servizio e nati prima del 1950 sono tecnicamente dei benestanti da sempre. Forse solo i magistrati, gli ufficiali delle forze armate e i consiglieri di stato hanno avuto un orizzonte di carriera più generoso. Si tratta infatti di un gruppo sociale andato al top della propria carriera (cioè in cattedra) molto presto, in un'età in cui oggi gli aspiranti accademici sono ancora post-studenti (sto parlando di medie ovviamente). Insomma, questa gente non ha dovuto sbattersi con dottorati e precariato vario, e comunque ha riscattato tutto il riscattabile. In larga misura, godrà di una pensione calcolata sul retributivo. E la loro base retributiva, parlo dei professori ordinari di quella generazione, è compresa "a fine corsa" tra i 5 e i 6 mila euro al mese. Io ne conosco molti di questi professori. Alcuni sono dei maestri straordinari e lavorano come pazzi, non certo per il denaro. Anche a loro potrebbe essere dunque chiesto un piccolo sacrificio economico, magari saldamente ancorato ad un piano straordinario di reclutamento che salvi la speranza di contribuire al destino della nostra università a un bel gruppo di validi studiosi "giovani" in quanto nati negli anni ottanta. Io sono sicuro che molti colleghi anche più anziani sarebbero d'accordo con me: dateci una proposta concreta sul turnover e risponderemo, isolando i più egoisti.
Le uniche tre azioni serie da mettere in campo parlando di politiche per l'università sono le seguenti:
1. piano straordinario per i ricercatori, dando un senso alla mitologica figura del RTD previsto dalla 240/2010;
2. Introduzione di una procedura seria di revisione dei criteri di attribuzione del tempo definito, abbassamento della retribuzione e valutazione dell'effettivo impegno del corposo numero di docenti collocatosi in questo regime;
3. introduzione di un tetto massimo pensionistico che interessi anche le pensioni più elevate degli ex professori universitari, nel contesto di una riforma che consideri attentamente i tanti benefits aquisiti in passato da molti dirigenti pubblici.
Tutto il resto è da codificare nella categoria delle chiacchiere. Oggi l'università pubblica italiana sta invecchiando paurosamente, pochi fanno il lavoro "sporco" che serve a tenere in piedi la baracca. Rispetto alla popolazione accademica ufficiale, siamo ancora meno: lasciando perdere i fannulloni che pure non mancano, il bizantino sistema di procedure, che produce ancora più scartoffie di prima, è un vero antidoto per la passione. Molti colleghi preferiscono stare ai lati del tavolo, anche in considerazione della scarsa reputazione dei ruoli istituzionali, moltissimi esercitano altre professioni. Continuare a lavorare di bisturi per trovare l'età di pensionamento e il livello naturale di turnover strutturale ideale è tempo perso. E mandare a casa ora dei professori, molti dei quali bravi e motivati, senza preavviso serve solo a mettere in difficoltà gli atenei. Fine.
Tuttavia, due cose vanno dette. In primo luogo, tirare una linea unica per mandare in pensione tutti alla stessa età non sarebbe stato affatto ingiusto. Dal momento che vi è una legge, la 230/2006, che ha fissato il termine a quota 68, perchè fare due pesi e N misure? In secondo luogo, dobbiamo chiarire bene chi si attiva in questi casi di ventilate riforme nella carriera e nei pensionamenti degli accademici, e perchè. Ci si attiva per tutelare la continuità dei corsi, dei dottorati, dei laboratori, della presenza italiana nella ricerca internazionale? Bene: allora si producano numeri, nomi e cognomi. Se invece ci si batte per la buonuscita o per lo scatto, allora si deve avere il coraggio di dirlo. Mi viene da pensare che se non ci pensiamo noi stessi a mostrare la natura del problema faremo una pessima figura, mostrando una corporazione assai peggiore di ciò che è nella realtà. Non siamo così di braccio corto.
É bene dire che i professori universitari attualmente in servizio e nati prima del 1950 sono tecnicamente dei benestanti da sempre. Forse solo i magistrati, gli ufficiali delle forze armate e i consiglieri di stato hanno avuto un orizzonte di carriera più generoso. Si tratta infatti di un gruppo sociale andato al top della propria carriera (cioè in cattedra) molto presto, in un'età in cui oggi gli aspiranti accademici sono ancora post-studenti (sto parlando di medie ovviamente). Insomma, questa gente non ha dovuto sbattersi con dottorati e precariato vario, e comunque ha riscattato tutto il riscattabile. In larga misura, godrà di una pensione calcolata sul retributivo. E la loro base retributiva, parlo dei professori ordinari di quella generazione, è compresa "a fine corsa" tra i 5 e i 6 mila euro al mese. Io ne conosco molti di questi professori. Alcuni sono dei maestri straordinari e lavorano come pazzi, non certo per il denaro. Anche a loro potrebbe essere dunque chiesto un piccolo sacrificio economico, magari saldamente ancorato ad un piano straordinario di reclutamento che salvi la speranza di contribuire al destino della nostra università a un bel gruppo di validi studiosi "giovani" in quanto nati negli anni ottanta. Io sono sicuro che molti colleghi anche più anziani sarebbero d'accordo con me: dateci una proposta concreta sul turnover e risponderemo, isolando i più egoisti.