Una strana sensazione di cuore stretto mi ha catturato, imbarcandomi su questo volo. Passare il 25 Aprile lontano dai miei luoghi non è certo una novità. Ma quest’anno a intristirmi non è solo la saudade che prende sempre quando pensi agli amici che lasci. Non è neppure il solito darsi del bischero per aver fissato troppi impegni di lavoro, incurante degli affetti, della tua vita privata e anche della tua storia. Quest’anno la sensazione è quella di un bambino che si chiude in camera quando sente i genitori litigare. Non starò scappando dall’Italia per non osservare cosa succede a casa mia?
Da quando ho memoria del 25 Aprile non rammento di essere mai stato così. Per me il 25 Aprile è semplicemente passeggiare nei ricordi della liberazione dalla dittatura. Non è una manifestazione di partito. Non è una commemorazione escludente. In fondo non è nemmeno una festa contro quelli che non credono alla democrazia, perché sono stati liberati come lo siamo noi. Liberazione, per me, significa il momento in cui tutti, anche coloro che non vogliono, godono la libertà. Infatti celebriamo il giorno in cui la parte di Italia ancora soggiogata al fascismo si tolse le catene grazie al sacrificio (anche) di tanti Italiani.
Questo lo penso dal mio primo 25 Aprile: Il calore della mano di mio padre che mi guida non è odio. Figuriamoci. Lui per non turbarmi mi dice sempre che il mitragliamento di Saturnia in cui ha perso la vita suo fratello, soltanto 9 anni, è stato un “incidente”. In fondo se mi dicesse che è stata una forma di rappresaglia dei tedeschi non direbbe il falso. Lui, come quelli che la guerra e la resistenza le hanno vissute davvero, non calca la mano inutilmente. Non scava ulteriori fratture. Mi dice solo che dovrò essere io a godere di quel frutto, da grande: che devo leggere e approfondire. Mi dice che la liberazione dalla dittatura e la costituzione repubblicana che arrivò dopo servono proprio a garantire le mie scelte future.
Da allora ho letto tanto. E spero di continuare a farlo. Perché grazie alla liberazione siamo liberi di approfondire sempre di più la nostra conoscenza: la resistenza che fu determinante e quella che forse fu un poco più folkloristica. Gli errori e gli orrori della guerra. Chi vorrà potrà continuare anche a celebrare il sangue dei vinti. Certamente. Ognuno è libero di approfondire quel che ritiene più utile. Ma tutto questo, ricordiamocelo, lo possiam fare perché siamo stati liberati.
Ciò che va in scena in questa fase, in questi giorni, non è invece il sequel delle discussioni, tutte legittime, su tanti episodi storici. Siamo di fronte ad un attacco negazionista e revisionista, portato dai fascisti del XXI secolo – gente che non ha niente a che fare con i vinti di allora, se non la simpatia per un regime illiberale che nemmeno conoscono. Essi lanciano la provocazione, irridendo i simboli della nostra libertà, in modo da favorire reazioni disordinate, e divise. Sperano che i conservatori diventino come loro, perché sanno che è già successo. Loro hanno comunque tutto da guadagnare diffondendo il verbo neofascista anche solo in uno zerovirgola in più, perché sanno che le ultime generazioni, fragilissime e spaesate dalla follia di questi anni, possono trovare in loro la fortezza che non trovano altrove. Loro sperano nel diffondersi di un disimpegno ignorante che irride come anacronistici i richiami di chi ricorda da che cosa ci siamo liberati nel 1945: “sono fatti di settantadue anni fa… basta!”. Se poi scoppia un casino, riusciranno ad uscire bene anche agli occhi dei cieco-moderati: la responsabilità del casino non sarà mai la loro ma della “coalizione antifascista” che ha portato il paese a questo schifo. Perché la nostra è una democrazia solo presunta.
Non è dunque un caso che i fascisti del XXI secolo arrivino nelle nostre città, con il loro fare ambiguo. A Grosseto, dove la sconsideratezza dei conservatori li ha portati a bordo della politica, si ergono a classe di governo. Organizzano convegni. Promuovono la rilettura sistematica della storia, e fanno leva sull’identità cittadina, proponendo ricostruzioni pecorecce e strumentali degli eventi bellici dove si versò tanto sangue innocente. A Siena la situazione politica è diversa, e i fascisti del XXI secolo devono mostrare il loro vero volto: sfidano la storia della città, marciando provocatoriamente accanto al 25 Aprile, tra proclami inquietanti e simulacri nostalgici. La ri-santificazione di uno squadrista, già martirizzato nel ventennio è il culmine di questa strategia, neanche troppo brillante ed originale, ma che può diventare efficace se l’unità e la cultura della liberazione vengono meno.
Già. Perché il problema sta da questa parte. Sta nel deficit di cultura e di unità che soffriamo tutti. Le polemiche sulla partecipazione alla manifestazione ANPI lo dimostrano. Il problema sta nella perfetta disequazione tra cultura e classe politica, che Scalfari ricordava pochi giorni fa. Sta nella politica e anche nel PD, che invece di indicare puntualmente dove non partecipa, dovrebbe avere sempre le proprie bandiere pronte e garantire presenza continua a tutte le manifestazioni democratiche. Chi vuol essere un baluardo di quello che una volta era l’arco costituzionale, deve esserci in piazza quando si parla di antifascismo e di rimembranza, chiedendo agli organizzatori delle manifestazioni divise di unirsi. E, in mancanza di risposta positiva, chiedendo di differire almeno gli orari dei cortei, per spostare le proprie bandiere ovunque. Anche (e soprattutto) alle manifestazioni di chi ha votato No al referendum!
È un problema enorme, non tanto per il rischio di una sempre maggiore presa delle menzogne neofasciste, che non va comunque sottovalutato. La vera partita ora è la perdita del senso collettivo di una celebrazione, che oggi rischia di essere ridotta a fazionismo. I disimpegnati che parlano di stucchevole confronto tra nostalgici neri contro nostalgici rossi, come quelli che ascoltavo oggi in aeroporto, sono quelli che mi fanno più paura. Mi fa paura la ridicolizzazione della conoscenza a cui partecipano gli specialisti della menzogna, che beninteso possono albergare in qualsiasi parte. Mi fa paura vedere la nonchalance con cui un giornale reputato, non importa se collocato in un’area diversa dalla mia, parla di “controstoria” pubblicando cose come quelle di Giorgio Pisanò, la cui motivazione e il cui quadro di rifermento sono in realtà note da sempre. Di questo passo sarà facile mettere d’accordo tutti sul fatto che il 25 Aprile è solo una data. Non è una festa della liberazione. Anzi, ci diranno che la festa non c’è mai stata.
Ma io dico che quella festa c’è stata. Era il 1970 quando mio padre mi ci portò, e nonostante la crisi e i primi segni di una lunga stagione di strategia della tensione, tutti i democratici sfilavano uniti. Non ricordo, nella mia città, un solo politico democristiano che rinunciasse in quegli anni a presenziare alla festa per inseguire i voti dei nostalgici del regime o della repubblica sociale. Anche i “fascisti veri” – ne frequentavo alcuni anch’io – riconoscevano la sacralità di quel momento unitario.
Dico anche che quella festa è durata a lungo. Era il 1990 quando mi sono trovato, sotto servizio militare, nel picchetto d’onore al Bastione della rimembranza, sempre nella mia città. Mi commosse il discorso del colonnello di cui ero attendente, uomo per il quale non sentivo certo alcuna affinità. Infarcito di retorica nazionale e militare, se vogliamo, ma era un discorso autenticamente costruito sull’unità della liberazione. Ripensai alle parole di mio padre, venti anni prima. Quella sera avrei voluto ringraziarlo per avermi regalato quel mio primo 25 Aprile.
Quel 25 aprile oggi manca. Non perché debba sentirmi più Italiano. Semplicemente per sentirmi più forte. Più vicino alla mia gente. Senza quella festa siamo semplicemente più poveri
Da quando ho memoria del 25 Aprile non rammento di essere mai stato così. Per me il 25 Aprile è semplicemente passeggiare nei ricordi della liberazione dalla dittatura. Non è una manifestazione di partito. Non è una commemorazione escludente. In fondo non è nemmeno una festa contro quelli che non credono alla democrazia, perché sono stati liberati come lo siamo noi. Liberazione, per me, significa il momento in cui tutti, anche coloro che non vogliono, godono la libertà. Infatti celebriamo il giorno in cui la parte di Italia ancora soggiogata al fascismo si tolse le catene grazie al sacrificio (anche) di tanti Italiani.
Questo lo penso dal mio primo 25 Aprile: Il calore della mano di mio padre che mi guida non è odio. Figuriamoci. Lui per non turbarmi mi dice sempre che il mitragliamento di Saturnia in cui ha perso la vita suo fratello, soltanto 9 anni, è stato un “incidente”. In fondo se mi dicesse che è stata una forma di rappresaglia dei tedeschi non direbbe il falso. Lui, come quelli che la guerra e la resistenza le hanno vissute davvero, non calca la mano inutilmente. Non scava ulteriori fratture. Mi dice solo che dovrò essere io a godere di quel frutto, da grande: che devo leggere e approfondire. Mi dice che la liberazione dalla dittatura e la costituzione repubblicana che arrivò dopo servono proprio a garantire le mie scelte future.
Da allora ho letto tanto. E spero di continuare a farlo. Perché grazie alla liberazione siamo liberi di approfondire sempre di più la nostra conoscenza: la resistenza che fu determinante e quella che forse fu un poco più folkloristica. Gli errori e gli orrori della guerra. Chi vorrà potrà continuare anche a celebrare il sangue dei vinti. Certamente. Ognuno è libero di approfondire quel che ritiene più utile. Ma tutto questo, ricordiamocelo, lo possiam fare perché siamo stati liberati.
Ciò che va in scena in questa fase, in questi giorni, non è invece il sequel delle discussioni, tutte legittime, su tanti episodi storici. Siamo di fronte ad un attacco negazionista e revisionista, portato dai fascisti del XXI secolo – gente che non ha niente a che fare con i vinti di allora, se non la simpatia per un regime illiberale che nemmeno conoscono. Essi lanciano la provocazione, irridendo i simboli della nostra libertà, in modo da favorire reazioni disordinate, e divise. Sperano che i conservatori diventino come loro, perché sanno che è già successo. Loro hanno comunque tutto da guadagnare diffondendo il verbo neofascista anche solo in uno zerovirgola in più, perché sanno che le ultime generazioni, fragilissime e spaesate dalla follia di questi anni, possono trovare in loro la fortezza che non trovano altrove. Loro sperano nel diffondersi di un disimpegno ignorante che irride come anacronistici i richiami di chi ricorda da che cosa ci siamo liberati nel 1945: “sono fatti di settantadue anni fa… basta!”. Se poi scoppia un casino, riusciranno ad uscire bene anche agli occhi dei cieco-moderati: la responsabilità del casino non sarà mai la loro ma della “coalizione antifascista” che ha portato il paese a questo schifo. Perché la nostra è una democrazia solo presunta.
Non è dunque un caso che i fascisti del XXI secolo arrivino nelle nostre città, con il loro fare ambiguo. A Grosseto, dove la sconsideratezza dei conservatori li ha portati a bordo della politica, si ergono a classe di governo. Organizzano convegni. Promuovono la rilettura sistematica della storia, e fanno leva sull’identità cittadina, proponendo ricostruzioni pecorecce e strumentali degli eventi bellici dove si versò tanto sangue innocente. A Siena la situazione politica è diversa, e i fascisti del XXI secolo devono mostrare il loro vero volto: sfidano la storia della città, marciando provocatoriamente accanto al 25 Aprile, tra proclami inquietanti e simulacri nostalgici. La ri-santificazione di uno squadrista, già martirizzato nel ventennio è il culmine di questa strategia, neanche troppo brillante ed originale, ma che può diventare efficace se l’unità e la cultura della liberazione vengono meno.
Già. Perché il problema sta da questa parte. Sta nel deficit di cultura e di unità che soffriamo tutti. Le polemiche sulla partecipazione alla manifestazione ANPI lo dimostrano. Il problema sta nella perfetta disequazione tra cultura e classe politica, che Scalfari ricordava pochi giorni fa. Sta nella politica e anche nel PD, che invece di indicare puntualmente dove non partecipa, dovrebbe avere sempre le proprie bandiere pronte e garantire presenza continua a tutte le manifestazioni democratiche. Chi vuol essere un baluardo di quello che una volta era l’arco costituzionale, deve esserci in piazza quando si parla di antifascismo e di rimembranza, chiedendo agli organizzatori delle manifestazioni divise di unirsi. E, in mancanza di risposta positiva, chiedendo di differire almeno gli orari dei cortei, per spostare le proprie bandiere ovunque. Anche (e soprattutto) alle manifestazioni di chi ha votato No al referendum!
È un problema enorme, non tanto per il rischio di una sempre maggiore presa delle menzogne neofasciste, che non va comunque sottovalutato. La vera partita ora è la perdita del senso collettivo di una celebrazione, che oggi rischia di essere ridotta a fazionismo. I disimpegnati che parlano di stucchevole confronto tra nostalgici neri contro nostalgici rossi, come quelli che ascoltavo oggi in aeroporto, sono quelli che mi fanno più paura. Mi fa paura la ridicolizzazione della conoscenza a cui partecipano gli specialisti della menzogna, che beninteso possono albergare in qualsiasi parte. Mi fa paura vedere la nonchalance con cui un giornale reputato, non importa se collocato in un’area diversa dalla mia, parla di “controstoria” pubblicando cose come quelle di Giorgio Pisanò, la cui motivazione e il cui quadro di rifermento sono in realtà note da sempre. Di questo passo sarà facile mettere d’accordo tutti sul fatto che il 25 Aprile è solo una data. Non è una festa della liberazione. Anzi, ci diranno che la festa non c’è mai stata.
Ma io dico che quella festa c’è stata. Era il 1970 quando mio padre mi ci portò, e nonostante la crisi e i primi segni di una lunga stagione di strategia della tensione, tutti i democratici sfilavano uniti. Non ricordo, nella mia città, un solo politico democristiano che rinunciasse in quegli anni a presenziare alla festa per inseguire i voti dei nostalgici del regime o della repubblica sociale. Anche i “fascisti veri” – ne frequentavo alcuni anch’io – riconoscevano la sacralità di quel momento unitario.
Dico anche che quella festa è durata a lungo. Era il 1990 quando mi sono trovato, sotto servizio militare, nel picchetto d’onore al Bastione della rimembranza, sempre nella mia città. Mi commosse il discorso del colonnello di cui ero attendente, uomo per il quale non sentivo certo alcuna affinità. Infarcito di retorica nazionale e militare, se vogliamo, ma era un discorso autenticamente costruito sull’unità della liberazione. Ripensai alle parole di mio padre, venti anni prima. Quella sera avrei voluto ringraziarlo per avermi regalato quel mio primo 25 Aprile.
Quel 25 aprile oggi manca. Non perché debba sentirmi più Italiano. Semplicemente per sentirmi più forte. Più vicino alla mia gente. Senza quella festa siamo semplicemente più poveri