La tentazione di scrivere sulla riforma del Senato, per uno che dopo tutto si è sempre occupato di parlamento e parlamentarismo, è forte. Ho resistito sino ad ora, e credo che continuerò a farlo, in nome di due ragionamenti semplici:
1. la discussione sul Senato doveva e dovrebbe essere contestualizzata rispetto agli obiettivi complessivi dell'intervento sulla costituzione e più in generale sul sistema di governo. Molti protagonisti del dibattito, ognuno con una propria specifica posta in gioco, tendono a scordarselo, seguiti da giornalisti parlamentaristi presi unicamente dagli effetti di questa battaglia sulla congiuntura politica e sulla leadership di Renzi. Forse è il caso di riconoscere ad una sola Ministra, Maria Elena Boschi, autrice di un primo testo di riforma che a me francamente non era piaciuto, di aver spesso richiamato, a dispetto di un premier che insiste solo sul tasto del "non ci fermeranno", l'esigenza di una lettura complessiva dell'architettura costituzionale che andiamo a modificare.
2. In secondo luogo, mi pare vi sia già molto rumore di chiacchiere su questa riforma, e siccome non vorrei contribuire ad un ennesimo "rumore per nulla" attendo la riforma del Senato e in generale il ddl costituzionale alla prova dei fatti: è evidente che soltanto il passaggio alla Camera determinerà la vera agenda di questa riforma, poichè un emendamento anche minimo obbligherebbe una nuova corrida incandescente a Palazzo Madama, dove circa 320 senatori si troveranno a decidere in modo definitivo sul proprio futuro politico, oltre che sul futuro della nostra costituzione.
Fatte queste precisazioni, dopo il voto di venerdì è tuttavia giunto il momento di dire se quanto prospettato dal Senato è un avanzamento, un punto di approdo o soltanto unO dei tanti salti nel vuoto a cui siamo stati abituati in questi venti anni di riforme permanenti e riformatori incompetenti.
Provo a valutare lo stato dell'arte in poche parole: se la giostra della riforma si fermasse al testo licenziato dal Senato, avremmo una nuova forma di bicameralismo. Certamente asimmetrico data la composizione e i poteri delle due camere, ma pur sempre un bicameralismo. Con queste norme l'Italia si collocherebbe infatti piuttosto in alto in un ranking dei poteri bicamerali presentati dai parlamenti democratici. Verso la direzione del rapporto "paritario" non vanno soltanto gli emendamenti apportati in commissione sul nome (che torna Senato della repubblica) e sulla esplicita specificazione del rapporto paritario per le materie di competenza (art. 55). Anche alcune norme sostantivamente cogenti come quelle relative ai poteri ispettivi, ed alla sostanziale immunità reintrodotta anche per i senatori (art. 68) rimangono generose con il Senato. Senza contare, è bene precisarlo, che il ddl prevedeva già importanti poteri di decisione (l'attività legislativa in fin dei conti più importante, ovvero la riforma costituzionale, e l'elezione del capo dello stato) e di iniziativa legislativa.
Questo dovrebbe costituire una buona garanzia per tacitare i dubbi di tutti quelli che parlano di golpe e di snaturamento del parlamentarismo. Siccome mi trovo benissimo - da sempre - nel campo dei fautori di una democrazia (moderatamente) consensuale fatta da molti "pesi e contrappesi", non mi dispiace che vi sia discussione su questi temi. Ma continuare a parlare di svolta autoritaria è davvero solo un modo per buttare una cosa seria come la riforma costituzionale in burletta, da parte di chi è interessato solo a tenere soltanto le luci accese sulla leadership di Renzi, nella speranza che tale pressione acceleri i tempi del naturale calo dei suoi consensi personali, in una prospettiva di disarcionamento. Capisco che questo tipo di strategia sia l'unica possibile per opposizioni estremistiche e anti-sistema come Lega e M5S, ma non mi è ancora chiara la strategia complessiva del PD: se la minoranza del partito non capisce l'azione del governo su economia e politiche di sviluppo (quello che dice ogni tanto Fassina per capirsi) trovi il modo di esplicitare un piano B su questi temi. Votare disuniti "soltanto un poco" ma "su tutto" forse indebolisce più l'Italia che non la leadership di Renzi. In questo mi pare di condividere Scalfari che pure si è iscritto, con il suo lungo articolo di domenica, al partito di quelli che "di qualsiasi cosa si parli, dobbiamo dare un voto a Renzi". Quindi cambio subito discorso.
E riparto dal primo dei due caveat poc'anzi enunciati: come possiamo valutare da un punto di vista di sistema il ddl Boschi alla luce del voto del Senato? Chiarire che non si tratta della morte del bicameralismo e tanto meno di quella del parlamento non è sufficiente per dirsi felici di questo passaggio. Anzi, sovviene una domanda ancor più imbarazzante: a che serve questa riforma? Ripeto, le parole del premier sulla instancabile azione dei riformatori non servono a molto. Servirebbe invece capire come la funzionalità complessiva del sistema potrà trovare giovamento da questa azione. Leggendo il recente libro di Salvatore Vassallo, Liberiamo la politica, ci si fa un'idea precisa del traguardo da raggiungere: una correzione, sia pure blanda, del sistema istituzionale tradizionale nel senso di una maggiore effettività dell'azione di governo, corroborata da un parlamento snello e pungente, ovvero capace di inseguire l'esecutivo sui dossier più "caldi" e fargli sentire continuamente il proprio peso. Se vogliamo andare in questa direzione io sottoscrivo subito la legge costituzionale e magari ingollo anche un italicum che continua a non piacermi troppo, posto che non andrei a votare un partito incapace di imporsi, in caso di lista bloccata , una qualche forma di consultazione diretta, certificabile e trasparente di selezione dal basso dei candidati. Tra i tanti ritocchi più o meno insignificanti - forse una qualche rilevanza potrebbe averla la nuova disciplina dei referendum con la complessa regola del "quorum non richiesto" in caso di una quota straordinaria di firme di raccolta fissata ad 800 mila - merita ricordare che l'abolizione del CNEL e il consolidamento di quanto già di fatto ottenuto con l'abrogazione chirurgica delle istituzioni dell'amministrazione provinciale costituiscono significativi passi in avanti in una logica di azione ergonomica sull'architettura del sistema.
Tuttavia, dobbiamo ancora registrare che il disegno di cui sopra rimane ancora confuso, e il ddl da solo al massimo può rappresentare solo un piccolo passetto che non illumina certamente una vera direzione. Non spetta a me concludere, come fanno molti, che questa è la prova di una strategia dilatoria mossa solo dal bisogno di acquistare tempo n una situazione di stallo politico, o arguire come fanno altri che Renzi sta soltanto pagando lentamente a Berlusconi il prezzo di una sostanziale spartizione. Le dietrologie non sono il mio mestiere. Però mancano all'appello una serie di cose oltre alla legge elettorale e ad una azione effettiva sull'economia (che assumo sarà svelata dalla prossima legge di stabilità). Provo a riassumere i pezzi ad oggi mancanti:
- sul piano costituzionale temo che l'azione sul titolo quinto non sia sufficiente a superare il caos della multi-dimensionalità dei livelli e degli organi di governo (e la conseguente sovrapposizione di ruoli e poteri concorrenti). Una strada possibile è quella di un intervento già in seconda lettura su riaccorpamento di regioni e abolizione dello statuto speciale, ma non vedo segnali in questa direzione;
- sul piano legislativo, due interventi da troppo tempo annunciati come la legge organica sui partiti (con norme stringenti su statuti e procedure di democrazia interna) e legge organica anti-corruzione arginerebbero senz'altro i rischi di un uso opportunistico delle poche risorse pubbliche oggi necessarie per l'organizzazione della vita democratica. Sarebbe fantastico se queste norme arrivassero con un unico e chiaro riferimento normativo sul divieto di emolumenti cumulativi e con un tetto serio sulle pensioni di tutti gli ex servitori dello stato;
- sul piano dei rapporti inter-istituzionali, dovrebbe essere realizzato un nuovo "patto di stabilità" che libera i vincoli sulle risorse appannaggio di regioni e comuni quando essi si mostrano in grado di realizzare obiettivi di semplificazione amministrativa a cominciare da quelli enumerati dal lavoro di Cottarelli.
- infine, ma non ultimo, la camera dei deputati dovrebbe darci un segnale immediato di adattamento consapevole al sistema della riforma costituzionale 2014, con una revisione drastica del proprio regolamento.
Tutte queste cose si possono fare in 500 giorni. Il governo dovrebbe adoperarsi per realizzarne alcune e pressare gli attori istituzionali che sono in grado di fare le altre. Altrimenti questo voto del Senato passerà alla storia come l'ennesimo balzo, anzi l'ennesimo passetto, nel vuoto. E questo ci consentirebbe di accomunare il livello di "statismo" dei riformatori a quello, ahinoi, di un qualsiasi Calderoli.
1. la discussione sul Senato doveva e dovrebbe essere contestualizzata rispetto agli obiettivi complessivi dell'intervento sulla costituzione e più in generale sul sistema di governo. Molti protagonisti del dibattito, ognuno con una propria specifica posta in gioco, tendono a scordarselo, seguiti da giornalisti parlamentaristi presi unicamente dagli effetti di questa battaglia sulla congiuntura politica e sulla leadership di Renzi. Forse è il caso di riconoscere ad una sola Ministra, Maria Elena Boschi, autrice di un primo testo di riforma che a me francamente non era piaciuto, di aver spesso richiamato, a dispetto di un premier che insiste solo sul tasto del "non ci fermeranno", l'esigenza di una lettura complessiva dell'architettura costituzionale che andiamo a modificare.
2. In secondo luogo, mi pare vi sia già molto rumore di chiacchiere su questa riforma, e siccome non vorrei contribuire ad un ennesimo "rumore per nulla" attendo la riforma del Senato e in generale il ddl costituzionale alla prova dei fatti: è evidente che soltanto il passaggio alla Camera determinerà la vera agenda di questa riforma, poichè un emendamento anche minimo obbligherebbe una nuova corrida incandescente a Palazzo Madama, dove circa 320 senatori si troveranno a decidere in modo definitivo sul proprio futuro politico, oltre che sul futuro della nostra costituzione.
Fatte queste precisazioni, dopo il voto di venerdì è tuttavia giunto il momento di dire se quanto prospettato dal Senato è un avanzamento, un punto di approdo o soltanto unO dei tanti salti nel vuoto a cui siamo stati abituati in questi venti anni di riforme permanenti e riformatori incompetenti.
Provo a valutare lo stato dell'arte in poche parole: se la giostra della riforma si fermasse al testo licenziato dal Senato, avremmo una nuova forma di bicameralismo. Certamente asimmetrico data la composizione e i poteri delle due camere, ma pur sempre un bicameralismo. Con queste norme l'Italia si collocherebbe infatti piuttosto in alto in un ranking dei poteri bicamerali presentati dai parlamenti democratici. Verso la direzione del rapporto "paritario" non vanno soltanto gli emendamenti apportati in commissione sul nome (che torna Senato della repubblica) e sulla esplicita specificazione del rapporto paritario per le materie di competenza (art. 55). Anche alcune norme sostantivamente cogenti come quelle relative ai poteri ispettivi, ed alla sostanziale immunità reintrodotta anche per i senatori (art. 68) rimangono generose con il Senato. Senza contare, è bene precisarlo, che il ddl prevedeva già importanti poteri di decisione (l'attività legislativa in fin dei conti più importante, ovvero la riforma costituzionale, e l'elezione del capo dello stato) e di iniziativa legislativa.
Questo dovrebbe costituire una buona garanzia per tacitare i dubbi di tutti quelli che parlano di golpe e di snaturamento del parlamentarismo. Siccome mi trovo benissimo - da sempre - nel campo dei fautori di una democrazia (moderatamente) consensuale fatta da molti "pesi e contrappesi", non mi dispiace che vi sia discussione su questi temi. Ma continuare a parlare di svolta autoritaria è davvero solo un modo per buttare una cosa seria come la riforma costituzionale in burletta, da parte di chi è interessato solo a tenere soltanto le luci accese sulla leadership di Renzi, nella speranza che tale pressione acceleri i tempi del naturale calo dei suoi consensi personali, in una prospettiva di disarcionamento. Capisco che questo tipo di strategia sia l'unica possibile per opposizioni estremistiche e anti-sistema come Lega e M5S, ma non mi è ancora chiara la strategia complessiva del PD: se la minoranza del partito non capisce l'azione del governo su economia e politiche di sviluppo (quello che dice ogni tanto Fassina per capirsi) trovi il modo di esplicitare un piano B su questi temi. Votare disuniti "soltanto un poco" ma "su tutto" forse indebolisce più l'Italia che non la leadership di Renzi. In questo mi pare di condividere Scalfari che pure si è iscritto, con il suo lungo articolo di domenica, al partito di quelli che "di qualsiasi cosa si parli, dobbiamo dare un voto a Renzi". Quindi cambio subito discorso.
E riparto dal primo dei due caveat poc'anzi enunciati: come possiamo valutare da un punto di vista di sistema il ddl Boschi alla luce del voto del Senato? Chiarire che non si tratta della morte del bicameralismo e tanto meno di quella del parlamento non è sufficiente per dirsi felici di questo passaggio. Anzi, sovviene una domanda ancor più imbarazzante: a che serve questa riforma? Ripeto, le parole del premier sulla instancabile azione dei riformatori non servono a molto. Servirebbe invece capire come la funzionalità complessiva del sistema potrà trovare giovamento da questa azione. Leggendo il recente libro di Salvatore Vassallo, Liberiamo la politica, ci si fa un'idea precisa del traguardo da raggiungere: una correzione, sia pure blanda, del sistema istituzionale tradizionale nel senso di una maggiore effettività dell'azione di governo, corroborata da un parlamento snello e pungente, ovvero capace di inseguire l'esecutivo sui dossier più "caldi" e fargli sentire continuamente il proprio peso. Se vogliamo andare in questa direzione io sottoscrivo subito la legge costituzionale e magari ingollo anche un italicum che continua a non piacermi troppo, posto che non andrei a votare un partito incapace di imporsi, in caso di lista bloccata , una qualche forma di consultazione diretta, certificabile e trasparente di selezione dal basso dei candidati. Tra i tanti ritocchi più o meno insignificanti - forse una qualche rilevanza potrebbe averla la nuova disciplina dei referendum con la complessa regola del "quorum non richiesto" in caso di una quota straordinaria di firme di raccolta fissata ad 800 mila - merita ricordare che l'abolizione del CNEL e il consolidamento di quanto già di fatto ottenuto con l'abrogazione chirurgica delle istituzioni dell'amministrazione provinciale costituiscono significativi passi in avanti in una logica di azione ergonomica sull'architettura del sistema.
Tuttavia, dobbiamo ancora registrare che il disegno di cui sopra rimane ancora confuso, e il ddl da solo al massimo può rappresentare solo un piccolo passetto che non illumina certamente una vera direzione. Non spetta a me concludere, come fanno molti, che questa è la prova di una strategia dilatoria mossa solo dal bisogno di acquistare tempo n una situazione di stallo politico, o arguire come fanno altri che Renzi sta soltanto pagando lentamente a Berlusconi il prezzo di una sostanziale spartizione. Le dietrologie non sono il mio mestiere. Però mancano all'appello una serie di cose oltre alla legge elettorale e ad una azione effettiva sull'economia (che assumo sarà svelata dalla prossima legge di stabilità). Provo a riassumere i pezzi ad oggi mancanti:
- sul piano costituzionale temo che l'azione sul titolo quinto non sia sufficiente a superare il caos della multi-dimensionalità dei livelli e degli organi di governo (e la conseguente sovrapposizione di ruoli e poteri concorrenti). Una strada possibile è quella di un intervento già in seconda lettura su riaccorpamento di regioni e abolizione dello statuto speciale, ma non vedo segnali in questa direzione;
- sul piano legislativo, due interventi da troppo tempo annunciati come la legge organica sui partiti (con norme stringenti su statuti e procedure di democrazia interna) e legge organica anti-corruzione arginerebbero senz'altro i rischi di un uso opportunistico delle poche risorse pubbliche oggi necessarie per l'organizzazione della vita democratica. Sarebbe fantastico se queste norme arrivassero con un unico e chiaro riferimento normativo sul divieto di emolumenti cumulativi e con un tetto serio sulle pensioni di tutti gli ex servitori dello stato;
- sul piano dei rapporti inter-istituzionali, dovrebbe essere realizzato un nuovo "patto di stabilità" che libera i vincoli sulle risorse appannaggio di regioni e comuni quando essi si mostrano in grado di realizzare obiettivi di semplificazione amministrativa a cominciare da quelli enumerati dal lavoro di Cottarelli.
- infine, ma non ultimo, la camera dei deputati dovrebbe darci un segnale immediato di adattamento consapevole al sistema della riforma costituzionale 2014, con una revisione drastica del proprio regolamento.
Tutte queste cose si possono fare in 500 giorni. Il governo dovrebbe adoperarsi per realizzarne alcune e pressare gli attori istituzionali che sono in grado di fare le altre. Altrimenti questo voto del Senato passerà alla storia come l'ennesimo balzo, anzi l'ennesimo passetto, nel vuoto. E questo ci consentirebbe di accomunare il livello di "statismo" dei riformatori a quello, ahinoi, di un qualsiasi Calderoli.