Dopo una settimana all’estero leggo e ascolto di un nuovo passo all’indietro sul governo sulle garanzie e sulle promesse in materia di università pubblica. Staremo zitti ancora una volta? Abbiamo molte ragioni, noi professori universitari, per stare zitti. Ci portiamo dietro il marchio del baronaggio. Costituiamo indubbiamente una amministrazione tutt’altro che perfetta. Probabilmente ospitiamo ancora qualche fannullone nelle nostre fila. E poi, forse la spiegazione più evidente della nostra arrendevolezza, amiamo immaginarci come dei “lavoratori diversi”, impegnati in una missione che sarebbe il lavoro più bello del mondo. Per questo siamo diventati masochisti.
Sappiamo però , che siamo l’attore necessario, se non l’unico, in grado di favorire il ribaltamento di un trend che è manifesto, e che trascina il paese in fondo ad ogni graduatoria di investimenti su ricerca, università e futuro. Lo sappiamo bene, e infatti gioiamo ogni volta che qualcuno di noi si prende qualche responsabilità di governo, tecnica o politica, per poi ricredersi con mestizia quando scopriamo che il problema non sta nell’expertise, tecnico o politico, di chi ci governa. Servono decisioni politiche, cioè politiche pubbliche vere, roba che anche i ministri politici non fanno perché in questo paese le politiche pubbliche sono solo esercizi incrementali tesi a produrre il minor cambiamento possibile.
Nel frattempo continuiamo a lavorare. Diventiamo vecchi aspettando una messa a sistema che è scritta nelle norme generali, nelle luci e nelle ombre di leggi come la 240, ma che nei fatti non viene mai. Ogni giorno leggiamo gli editoriali illuminati dei colleghi che dalle loro cattedre, magari dalle università private sovvenzionate dallo stato, ci invitano a vergognarci. Poi ci vergogniamo davvero del basso livello in cui ci siamo cacciati. Tuttavia, siamo bravissimi a stigmatizzare i colleghi che con le loro bravate infangano il nostro lavoro quotidiano, ma noi stessi dimentichiamo di ricordare al popolo italiano che il basso rendimento delle università pubbliche è un autentico miracolo considerando il differenziale di finanziamento pubblico che ci separa da altri modelli europei e anche quello che separa le università vere, quelle per capirsi con gli studenti in carne e ossa, il personale, le biblioteche, rispetto ad una serie di istituzioni dove si praticherebbe un’eccellenza che francamente nel mondo non si vede, ma che toglie ulteriori risorse agli atenei “ordinari”.
Tutto questo lo sappiamo. Ma siccome siamo lavoratori diversi e corporativi, non scriviamo, ne leggiamo mai che da venti anni stiamo pagando le colpe di altri – accademici e politici – e soprattutto stiamo facendo pagare il conto ai giovani. Per il nostro senso di colpa atavico ci applichiamo a cervellotiche procedure, nella speranza che il lavoro possa servire a instillare rigore e meritocrazia – il caso della VQR è l’ultimo esempio. Quelli di noi che si trovano a remare controcorrente – per gli errori palesi e reiterati del passato – si ritrovano da soli a lavorare per la qualità in atenei che non hanno neanche i soldi per comprarti un PC o la carta per la stampante. Ciò nonostante facciamo il lavoro quotidiano, e la notte proviamo anche a scrivere qualcosa, perché crediamo nella qualità, nell’impatto del lavoro scientifico e nella meritocrazia.
Poi scopriamo che i premi che dovevano essere garantiti a chi lavora bene non ci sono, che i tagli sono di fatto per tutti visto che nessuno può ricevere un taglio superiore al 5%, che le risorse aggiuntive per i giovani di fatto non ci sono. Intanto i governi continuano a tagliare dicendo che sono i primi a garantire la fine dei tagli. Gli iperliberisti continuano a scrivere che non basta perché le risorse si trovano nel mercato e i baroni devono dimagrire. Gli ipersindacalisti continuano a chiedere posti a concorso che sarebbero dovuti. E intanto noi continuiamo a lavorare. La CRUI sta nel mezzo e scrive qualche gentile letterina. C’è qualcuno che le legge queste lettere? Io mi ritrovo nei sensi della posizione espressa recentemente dalla CRUI: non voglio posti a concorso assegnati a pioggia. Non ho in mente un nuovo contratto (posto che gli stipendi dei colleghi reclutati dalle ultime generazioni sono ridicoli e anche questo dovremo dirlo). Dico solamente che una qualsiasi comunità professionale che ritiene di avere un ruolo minimamente per la collettività può dialogare su tutto ma non può tollerare lo scippo della propria reputazione sociale.
Passiamo l'80% del nostro tempo a riempire moduli, presentare progetti di ricerca, fare rapporti, giustificare spese, sentire al telefono colleghi, motivare il personale ministeriale e locale affinchè i progetti siano portati avanti. Riempiamo decine di schede valutative, pagine internet, rispondiamo a centinaia di mail , organizziamo eventi e in molti casi ci prendiamo responsabilità più grandi di noi, per esempio negli organi di governo di atenei che da tempo non elargiscono più posti o risorse da spartire ma solo scelte drammatiche di vera e propria macelleria sociale.
Ah dimenticavo. Noi gli studenti di carne e ossa ce li abbiamo. Insegniamo anche. Lo facciamo volentieri, perché ci piace il nostro lavoro. E lo faremo volentieri anche se ci dicessero che è finito il tempo dell’ipocrisia e che siamo diventati tutti funzionari di una rete di teaching universities senza tutte l’inutile complicazione di una valutazione della ricerca che non produce alcun effetto concreto.
Di fronte allo scippo della propria reputazione sociale, che ci toglie anche il tempo per pensare, per concentrarsi e magari scrivere qualcosa di nuovo senza riciclare il già scritto o sfruttare all'inverosimile conoscenze già diffuse, l’unico rimedio che conosco è quello dello sciopero. Non contro il nostro rettore o il nostro ministro. Non per il nostro salario o per quello dei nostri allievi. Sciopero per la speranza di un paese migliore dove chi lavora per l’educazione e per la ricerca possa avere almeno la stessa reputazione degli altri lavoratori.
Sappiamo però , che siamo l’attore necessario, se non l’unico, in grado di favorire il ribaltamento di un trend che è manifesto, e che trascina il paese in fondo ad ogni graduatoria di investimenti su ricerca, università e futuro. Lo sappiamo bene, e infatti gioiamo ogni volta che qualcuno di noi si prende qualche responsabilità di governo, tecnica o politica, per poi ricredersi con mestizia quando scopriamo che il problema non sta nell’expertise, tecnico o politico, di chi ci governa. Servono decisioni politiche, cioè politiche pubbliche vere, roba che anche i ministri politici non fanno perché in questo paese le politiche pubbliche sono solo esercizi incrementali tesi a produrre il minor cambiamento possibile.
Nel frattempo continuiamo a lavorare. Diventiamo vecchi aspettando una messa a sistema che è scritta nelle norme generali, nelle luci e nelle ombre di leggi come la 240, ma che nei fatti non viene mai. Ogni giorno leggiamo gli editoriali illuminati dei colleghi che dalle loro cattedre, magari dalle università private sovvenzionate dallo stato, ci invitano a vergognarci. Poi ci vergogniamo davvero del basso livello in cui ci siamo cacciati. Tuttavia, siamo bravissimi a stigmatizzare i colleghi che con le loro bravate infangano il nostro lavoro quotidiano, ma noi stessi dimentichiamo di ricordare al popolo italiano che il basso rendimento delle università pubbliche è un autentico miracolo considerando il differenziale di finanziamento pubblico che ci separa da altri modelli europei e anche quello che separa le università vere, quelle per capirsi con gli studenti in carne e ossa, il personale, le biblioteche, rispetto ad una serie di istituzioni dove si praticherebbe un’eccellenza che francamente nel mondo non si vede, ma che toglie ulteriori risorse agli atenei “ordinari”.
Tutto questo lo sappiamo. Ma siccome siamo lavoratori diversi e corporativi, non scriviamo, ne leggiamo mai che da venti anni stiamo pagando le colpe di altri – accademici e politici – e soprattutto stiamo facendo pagare il conto ai giovani. Per il nostro senso di colpa atavico ci applichiamo a cervellotiche procedure, nella speranza che il lavoro possa servire a instillare rigore e meritocrazia – il caso della VQR è l’ultimo esempio. Quelli di noi che si trovano a remare controcorrente – per gli errori palesi e reiterati del passato – si ritrovano da soli a lavorare per la qualità in atenei che non hanno neanche i soldi per comprarti un PC o la carta per la stampante. Ciò nonostante facciamo il lavoro quotidiano, e la notte proviamo anche a scrivere qualcosa, perché crediamo nella qualità, nell’impatto del lavoro scientifico e nella meritocrazia.
Poi scopriamo che i premi che dovevano essere garantiti a chi lavora bene non ci sono, che i tagli sono di fatto per tutti visto che nessuno può ricevere un taglio superiore al 5%, che le risorse aggiuntive per i giovani di fatto non ci sono. Intanto i governi continuano a tagliare dicendo che sono i primi a garantire la fine dei tagli. Gli iperliberisti continuano a scrivere che non basta perché le risorse si trovano nel mercato e i baroni devono dimagrire. Gli ipersindacalisti continuano a chiedere posti a concorso che sarebbero dovuti. E intanto noi continuiamo a lavorare. La CRUI sta nel mezzo e scrive qualche gentile letterina. C’è qualcuno che le legge queste lettere? Io mi ritrovo nei sensi della posizione espressa recentemente dalla CRUI: non voglio posti a concorso assegnati a pioggia. Non ho in mente un nuovo contratto (posto che gli stipendi dei colleghi reclutati dalle ultime generazioni sono ridicoli e anche questo dovremo dirlo). Dico solamente che una qualsiasi comunità professionale che ritiene di avere un ruolo minimamente per la collettività può dialogare su tutto ma non può tollerare lo scippo della propria reputazione sociale.
Passiamo l'80% del nostro tempo a riempire moduli, presentare progetti di ricerca, fare rapporti, giustificare spese, sentire al telefono colleghi, motivare il personale ministeriale e locale affinchè i progetti siano portati avanti. Riempiamo decine di schede valutative, pagine internet, rispondiamo a centinaia di mail , organizziamo eventi e in molti casi ci prendiamo responsabilità più grandi di noi, per esempio negli organi di governo di atenei che da tempo non elargiscono più posti o risorse da spartire ma solo scelte drammatiche di vera e propria macelleria sociale.
Ah dimenticavo. Noi gli studenti di carne e ossa ce li abbiamo. Insegniamo anche. Lo facciamo volentieri, perché ci piace il nostro lavoro. E lo faremo volentieri anche se ci dicessero che è finito il tempo dell’ipocrisia e che siamo diventati tutti funzionari di una rete di teaching universities senza tutte l’inutile complicazione di una valutazione della ricerca che non produce alcun effetto concreto.
Di fronte allo scippo della propria reputazione sociale, che ci toglie anche il tempo per pensare, per concentrarsi e magari scrivere qualcosa di nuovo senza riciclare il già scritto o sfruttare all'inverosimile conoscenze già diffuse, l’unico rimedio che conosco è quello dello sciopero. Non contro il nostro rettore o il nostro ministro. Non per il nostro salario o per quello dei nostri allievi. Sciopero per la speranza di un paese migliore dove chi lavora per l’educazione e per la ricerca possa avere almeno la stessa reputazione degli altri lavoratori.