Sulla risorgenza neo-fascista a Grosseto e non solo
Il fenomeno della risorgenza di un reticolo organizzativo che fa riferimento, più o meno in modo diretto, ai simboli del fascismo e a quel polo escluso di ispirazione repubblichina che aveva caratterizzato l’opposizione extra-costituzionale ma parlamentare nel corso della prima repubblica non va sottovalutato. Sono d’accordo con quanto scrive Max Frascino nel suo TiroMancino di questa settimana. E non ho molto da aggiungere sul caso di Grosseto, città che anche in passato ha generosamente premiato quel tipo di destra, e che presidia un territorio dove non mancano aree di diffusione delle idee reazionarie.
È dunque legittimo, in parte doveroso, rilanciare l’analisi sulle strategie da adottare per scongiurare i rischi di una vasta diffusione di pratiche basate sulla negazione dei principi democratici e sull’apologia di reato. Abbiamo la legge dalla nostra. Abbiamo l’imperativo morale di difendere quanto duramente conquistato dalla lotta anti-fascista, e di denunciare chi attenta alle libertà costituzionali. Il tema, per esempio, del rispetto delle regole basilari nell’uso dei social network è un elemento sul quale sarà necessario ribattere, perché il livello di barbarie nel discorso politico, la magnitudine della disinformazione, la gravità delle fake news immesse nel sistema, e il livello di odio che connota la maggior parte dei canali mediatici appannaggio dei giovani, sono tali da mettere in dubbio gli elementi sostanziali della democrazia. Mi riferisco alla coscienza di poter contare su informazioni effettivamente disponibili, alla serenità di poter esprimere giudizi ponderati, proprio in forza di dette informazioni. E infine alla responsabilità che accompagna ogni tipo di partecipazione, da quella più banale come ad esempio partecipare ad una riunione, a quelle più rilevanti come per esempio assumere una carica pubblica, passando per il voto che è naturalmente l’espressione più elevata della partecipazione perché vincola tutti (come elettorato attivo) ad un diritto-dovere sia pure solo occasionale, promuovendo nel contempo la partecipazione stabile di coloro che si candidano alla nobile attività politica (l’elettorato così detto passivo).
Questi elementi non li troviamo nelle definizioni minime o procedurali della democrazia, perché sono dati per scontati. Ma scontati in realtà non sono, soprattutto in quelle aree grigie o in quei sistemi ibridi dove la democrazia funziona a singhiozzo oppure è solo democrazia formale. Noi grazie a dio abbiamo ancora una democrazia vera tra le mani. Verissimo. Ma ci accorgiamo ogni giorno di più quanto sia necessario evitare che si spenga la fiammella delle garanzie sostanziali della democrazia. Il nostro voto è certamente libero. Le nostre istituzioni pluralistiche, e le manifestazioni della libertà di scelta ancora garantite. Eppure, anche ora, anche in Italia, ci sentiamo meno certi della nostra capacità di esprimere giudizi politici coscienti (a dispetto di una così ampia scelta di media!) e sempre più spesso ci sentiamo meno sereni rispetto alle scelte che dobbiamo fare. Quanto alla nostra capacità di essere responsabili, sappiamo da tempo di essere entrati in una fase storica di deficit di responsabilità. Peter Mair nel suo Governare il vuoto sostiene che la crisi dei partiti così detti mainstream ha messo in evidenza la distanza tra chi ha cercato – pur sbagliando nella fase di crisi recente sia diagnosi che terapie – di mantenere un atteggiamento responsabile (chiedendo molti e forse troppi sacrifici ai cittadini) mancando tuttavia di esercitare responsività nei confronti delle nuove domande sociali, e chi invece, soprattutto sul versante di destra (ma come sappiamo in Italia non è l’asse destra-sinistra quello più indicato per misurare il livello di populismo) cavalca facili risposte, mostrando grande responsività verso media e simpatizzanti, e mandando nel contempo a benedire quella responsabilità che dovrebbe essere il pane quotidiano di ogni attore politico.
Ci sarebbe molto da dire sulla necessità di de-costruire il significato attuale della democrazia, al fine di capire su quali valori puntare per evitare i rischi della insorgenza di nuove scorciatoie antidemocratiche. Ma quanto appena accennato sopra credo sia un basamento sufficiente per appoggiare una semplice argomentazione: difendere la democrazia ha i suoi costi. Tra questi costi, il più difficile da sostenere è quello di comprendere che il rispetto del pluralismo deve essere trasmesso con linguaggi ed argomentazioni adeguate ai tempi e diverse a seconda del tipo di sfide che si aprono tra un’epoca e l’altra.
Nell’epoca presente, connotata da sensazionalismo, dissenso “vocale” senza proposta, sound bytes, e da un ampio uso del massacro mediatico, dobbiamo rispondere alle provocazioni, ma anche ricominciare a ragionare sulle radici storiche e culturali del fascino della mentalità autoritaria, soprattutto tra i nostri giovani. Un esercizio che insomma non deve sostituirsi alla lotta politica, ma che è necessario per una comprensione condivisa del mutamento sociale, e che diventa utile anche per le strategie politiche di lungo periodo di coloro che intendono opporsi con forza al rischio di uno sdoganamento della mentalità (scusate ma io non ho mai considerato quella fascista una ideologia!) di una certa destra.
Vengo al punto: credo che il ritorno di simboli e pratiche post- o neo-fasciste sul territorio – che non sono certo casuali e non toccano soltanto città scivolate politicamente a destra come Grosseto (è di ieri la notizia di una partecipata manifestazione per l’apertura della sede di Casa Pound a Siena) – debba essere letta in funzione di una serie di precise condizioni. Condizioni correlate tra loro e difficilmente controllabili sul piano empirico – che certamente sto per argomentare in modo non sistematico – ma sufficientemente chiare per tentare una prima esamina.
La prima condizione è rappresentata dal contesto culturale in cui versa il nostro sistema politico. Personalmente non ho firmato la lettera/appello dei professori universitari sull’italiano degli studenti, che ho trovato sbagliata nel disegno e nei toni, in un paese nel quale, nonostante tutto, la scuola pubblica continua ad essere una istituzione credibile. Ma il tema di fondo che ha spinto molti docenti a firmare, quello dell’inadeguatezza dell’intero sistema di formazione, è un dato ineludibile. La scuola e l’università non sono state soltanto impoverite dai tagli e mortificate da continue riforme disegnate senza pensare alla fattibilità della loro stessa implementazione. L’ignoranza dei nostri studenti ha seguito in realtà lo stesso percorso parallelo di imbarazzante declino di identità all’interno del settore pubblico. Si sta a scuola come negli uffici, come nelle amministrazioni: si sopporta le cose storte senza avere la forza di reagire. Si accetta sempre più spesso l’idea che la furbizia e non la saggezza è il vero metodo per affermarsi. Ci si preoccupa dei diritti della propria generazione e non di quella che viene dopo. Si ragiona quasi sempre in termini di “fare parte” senza “sentirsi parte”.
Questi comportamenti che sono diffusi purtroppo nel pubblico (compresa evidentemente l’università pubblica) hanno un doppio effetto deleterio quando vengono palesati di fronte ai giovani, perché oltre alla cancellazione dei comportamenti virtuosi all’interno della organizzazione generano anche un inquinamento dei rapporti nei confronti dei pilastri sociali al centro della formazione: le famiglie, e naturalmente gli studenti stessi. È necessaria una solida iniezione di capitale sociale nella scuola pubblica, attraverso il ripristino di programmi più stringenti di educazione civica o di “cittadinanza e costituzione” come la si voglia chiamare, ma soprattutto con la rinnovata attenzione della scuola pubblica verso i temi della lotta alla diseguaglianza ed alla emarginazione sociale. Un esempio che riguarda Grosseto: la nuova amministrazione di destra ha segnato una discontinuità sull’impegno per la legalità non rinnovando, una delle prime azioni dopo l’insediamento della giunta, la propria adesione ad Avviso Pubblico. Io considero questo un grave errore, in un territorio come Grosseto già più volte preda di pericolose azioni di penetrazione delle nuove criminalità. Ma se vi fossero ampi cartelli di associazioni e di istituzioni culturali a premere sul tasto del bisogno di legittimità, forse sarebbe più facile aprire una breccia nella resistenza di chi ha indotto la giunta cittadina a questo tipo di decisione.
La seconda condizione risiede nel rapporto difficile tra gli Italiani e le informazioni. I nuovi media hanno soltanto accelerato il distacco, già avviato da tempo, tra opinione pubblica e volontà di conoscenza. Su internet si guardano le figure, ma non si legge. E l’approfondimento viene lasciato ai campioni della vocalità televisiva, anch’essi più preoccupati di colpire subito il bersaglio sensazionalistico che non di fornire qualche strumento di robusta conoscenza dei fatti. Vi sono, è evidente, rimarchevoli eccezioni. Ma il panorama è desolante sotto il profilo della capacità di trasferire i valori di una conoscenza eticamente sostenibile e rispettosa delle evidenze portate dai soggetti e paradigmi antagonisti. Penso che l’elite ristretta degli opinion makers debba essere chiamata in causa ma, di nuovo, il problema interessa un novero più vasto di soggetti. Ovvero, tutti quelli che in un modo o l’altro vivono di comunicazione, di informazione (compresi i cittadini più attivi nel citizen journalism e sui social). Penso anche alla galassia di associazioni culturali troppo “partigiane” e ripiegate esclusivamente sulla propria “missione”, magari solo al fine di mantenere qualche piccola sine cura. Penso allo sport. Penso ai sindacati. Penso anche al terzo settore. È difficile immaginare oggi un solo settore dove non vi sia un problema di sostenibilità etica. Non perché siano diventati cattivi tutti i dirigenti pubblici e di associazioni attive nella sfera pubblica. Ma perché un mondo cattivo (dove tutti siamo un po’ più incattiviti) impone loro di alzare la guardia. E in un contesto dominato da opacità e accomodamento, la destra fascista può imporre il suo mito più falso: quello di un ordine necessariamente sbandierato perché più l’ordine è “esplicito” (oppure “violento”) e più paga perché “ripulisce”.
Sappiamo che la democrazia ha tra le sue componenti la “gentilezza” della politica, perché chi è democratico non può mai “rimuovere” il proprio avversario. Sappiamo che le soluzioni facili, dalla pena capitale, agli strumenti e alle politiche più severe di limitazioni della libertà, hanno comportato fallimenti pedagogici tangibili, mentre hanno avuto grande successo nelle dittature. Dobbiamo però insistere su questi dati, per renderli diffusi e per rovesciare le fake news che albergano oggi nei siti e nelle urla dei populisti, degli xenofobi, dei razzisti e degli ultra-sovranista. Che invece sono costruite su narrazioni opposte. Quasi sempre false.
Da ultimo, lascio la condizione che mi pare decisiva per spiegare alcune tendenze oggettive di un nuovo consenso verso gli estremisti di destra, compresi quelli apertamente in conflitto con la natura anti-fascista della nostra costituzione, “sopportati” anche da alcuni soggetti della destra che governano molte città. Si può definire questa condizione come la “propensione alle teorie cospirative”. Sta crescendo, in Italia come in altre democrazie – soprattutto tra giovani, precari, e negli strati non scolarizzati e periferici del sistema sociale – la tendenza ad affidarsi all’idea che tutto quel che viene dal sistema non è affidabile perché è tutto “falso”.
Ora la domanda è: chi si avvantaggia con la crescita di un pubblico così al tempo stesso credulone e antagonizzato? La risposta ad oggi è che un leader furbo e potente ha tutto da guadagnare investendo sulla teoria della cospirazione. La campagna elettorale di Trump costituisce un esempio paradigmatico di discorso politico basato sulla cospirazione: “non ci si può fidare di quelli ” recitava il tycoon durante la sua marcia trionfale verso il big Tuesday di novembre: che si tratti dei politici di Washington (certo non privi di colpe), dei media ufficiali (certo tutt’altro che obiettivi), degli scienziati (non sempre rigorosi, certamente), e anche dei campioni della cultura nazionale (effettivamente da sempre “schierati” negli Usa in modo non gaussiano rispetto all’offerta politica), la campagna di Trump ha dimostrato che criticando una serie di attori – ognuno dei quali, ribadisco, sicuramente suscettibile di critiche si convince la pancia di un paese sostanzialmente ignorante come gli Usa ad eleggere un presidente mettendo assieme le aspettative più diverse. Ne ricordo soltanto tre solo titolo di esempio: zittire questi fanatici che pensano che il climate change esista davvero, smettere di spendere in armamenti dal momento che gli Usa devono disimpegnarsi, chiudere le frontiere ma in modo selettivo, per esempio escludendo islamici e messicani.
In Europa, dove i partiti esistono ancora (e possono diventare sette), l’appeal dei leader politici è superiore a quello dei businessmen, e dove il mito del superamento della plutocrazia (oggi sospinto dall’antieuropeismo) costituiscono forti variabili intervenienti, temo che i sostenitori della teoria della cospirazione possono costituire una riserva di caccia soprattutto per i nuovi imprenditori della destra neo-fascista. D’altra parte gli storici ci hanno insegnato che la critica alle bugie della democrazia si connotò come il brodo primordiale comune per la genesi di regimi autoritari strutturalmente diversi – come il regime di mobilitazione fascista, i regimi burocratico-miliziani di Franco e di Salazar, o i tipici regimi golpisti dei militari in Grecia.
Dunque, la teoria della cospirazione deve essere combattuta con fermezza, e non cavalcata dai nuovi soggetti politici che tengono alle regole democratiche. E l’unico modo che abbiamo, a partire dal territorio, è di lavorare sui gruppi sociali più gracili, quelli che menzionavo prima. Per stipulare una assicurazione collettiva contro i nuovi fascismi è necessario favorire una piena socializzazione dei giovani, delle donne che non lavorano, dei ragazzi delle nostre periferie, in modo da garantire in loro una minima fiducia nella sfera pubblica e in chi la rappresenta.
Il fenomeno della risorgenza di un reticolo organizzativo che fa riferimento, più o meno in modo diretto, ai simboli del fascismo e a quel polo escluso di ispirazione repubblichina che aveva caratterizzato l’opposizione extra-costituzionale ma parlamentare nel corso della prima repubblica non va sottovalutato. Sono d’accordo con quanto scrive Max Frascino nel suo TiroMancino di questa settimana. E non ho molto da aggiungere sul caso di Grosseto, città che anche in passato ha generosamente premiato quel tipo di destra, e che presidia un territorio dove non mancano aree di diffusione delle idee reazionarie.
È dunque legittimo, in parte doveroso, rilanciare l’analisi sulle strategie da adottare per scongiurare i rischi di una vasta diffusione di pratiche basate sulla negazione dei principi democratici e sull’apologia di reato. Abbiamo la legge dalla nostra. Abbiamo l’imperativo morale di difendere quanto duramente conquistato dalla lotta anti-fascista, e di denunciare chi attenta alle libertà costituzionali. Il tema, per esempio, del rispetto delle regole basilari nell’uso dei social network è un elemento sul quale sarà necessario ribattere, perché il livello di barbarie nel discorso politico, la magnitudine della disinformazione, la gravità delle fake news immesse nel sistema, e il livello di odio che connota la maggior parte dei canali mediatici appannaggio dei giovani, sono tali da mettere in dubbio gli elementi sostanziali della democrazia. Mi riferisco alla coscienza di poter contare su informazioni effettivamente disponibili, alla serenità di poter esprimere giudizi ponderati, proprio in forza di dette informazioni. E infine alla responsabilità che accompagna ogni tipo di partecipazione, da quella più banale come ad esempio partecipare ad una riunione, a quelle più rilevanti come per esempio assumere una carica pubblica, passando per il voto che è naturalmente l’espressione più elevata della partecipazione perché vincola tutti (come elettorato attivo) ad un diritto-dovere sia pure solo occasionale, promuovendo nel contempo la partecipazione stabile di coloro che si candidano alla nobile attività politica (l’elettorato così detto passivo).
Questi elementi non li troviamo nelle definizioni minime o procedurali della democrazia, perché sono dati per scontati. Ma scontati in realtà non sono, soprattutto in quelle aree grigie o in quei sistemi ibridi dove la democrazia funziona a singhiozzo oppure è solo democrazia formale. Noi grazie a dio abbiamo ancora una democrazia vera tra le mani. Verissimo. Ma ci accorgiamo ogni giorno di più quanto sia necessario evitare che si spenga la fiammella delle garanzie sostanziali della democrazia. Il nostro voto è certamente libero. Le nostre istituzioni pluralistiche, e le manifestazioni della libertà di scelta ancora garantite. Eppure, anche ora, anche in Italia, ci sentiamo meno certi della nostra capacità di esprimere giudizi politici coscienti (a dispetto di una così ampia scelta di media!) e sempre più spesso ci sentiamo meno sereni rispetto alle scelte che dobbiamo fare. Quanto alla nostra capacità di essere responsabili, sappiamo da tempo di essere entrati in una fase storica di deficit di responsabilità. Peter Mair nel suo Governare il vuoto sostiene che la crisi dei partiti così detti mainstream ha messo in evidenza la distanza tra chi ha cercato – pur sbagliando nella fase di crisi recente sia diagnosi che terapie – di mantenere un atteggiamento responsabile (chiedendo molti e forse troppi sacrifici ai cittadini) mancando tuttavia di esercitare responsività nei confronti delle nuove domande sociali, e chi invece, soprattutto sul versante di destra (ma come sappiamo in Italia non è l’asse destra-sinistra quello più indicato per misurare il livello di populismo) cavalca facili risposte, mostrando grande responsività verso media e simpatizzanti, e mandando nel contempo a benedire quella responsabilità che dovrebbe essere il pane quotidiano di ogni attore politico.
Ci sarebbe molto da dire sulla necessità di de-costruire il significato attuale della democrazia, al fine di capire su quali valori puntare per evitare i rischi della insorgenza di nuove scorciatoie antidemocratiche. Ma quanto appena accennato sopra credo sia un basamento sufficiente per appoggiare una semplice argomentazione: difendere la democrazia ha i suoi costi. Tra questi costi, il più difficile da sostenere è quello di comprendere che il rispetto del pluralismo deve essere trasmesso con linguaggi ed argomentazioni adeguate ai tempi e diverse a seconda del tipo di sfide che si aprono tra un’epoca e l’altra.
Nell’epoca presente, connotata da sensazionalismo, dissenso “vocale” senza proposta, sound bytes, e da un ampio uso del massacro mediatico, dobbiamo rispondere alle provocazioni, ma anche ricominciare a ragionare sulle radici storiche e culturali del fascino della mentalità autoritaria, soprattutto tra i nostri giovani. Un esercizio che insomma non deve sostituirsi alla lotta politica, ma che è necessario per una comprensione condivisa del mutamento sociale, e che diventa utile anche per le strategie politiche di lungo periodo di coloro che intendono opporsi con forza al rischio di uno sdoganamento della mentalità (scusate ma io non ho mai considerato quella fascista una ideologia!) di una certa destra.
Vengo al punto: credo che il ritorno di simboli e pratiche post- o neo-fasciste sul territorio – che non sono certo casuali e non toccano soltanto città scivolate politicamente a destra come Grosseto (è di ieri la notizia di una partecipata manifestazione per l’apertura della sede di Casa Pound a Siena) – debba essere letta in funzione di una serie di precise condizioni. Condizioni correlate tra loro e difficilmente controllabili sul piano empirico – che certamente sto per argomentare in modo non sistematico – ma sufficientemente chiare per tentare una prima esamina.
La prima condizione è rappresentata dal contesto culturale in cui versa il nostro sistema politico. Personalmente non ho firmato la lettera/appello dei professori universitari sull’italiano degli studenti, che ho trovato sbagliata nel disegno e nei toni, in un paese nel quale, nonostante tutto, la scuola pubblica continua ad essere una istituzione credibile. Ma il tema di fondo che ha spinto molti docenti a firmare, quello dell’inadeguatezza dell’intero sistema di formazione, è un dato ineludibile. La scuola e l’università non sono state soltanto impoverite dai tagli e mortificate da continue riforme disegnate senza pensare alla fattibilità della loro stessa implementazione. L’ignoranza dei nostri studenti ha seguito in realtà lo stesso percorso parallelo di imbarazzante declino di identità all’interno del settore pubblico. Si sta a scuola come negli uffici, come nelle amministrazioni: si sopporta le cose storte senza avere la forza di reagire. Si accetta sempre più spesso l’idea che la furbizia e non la saggezza è il vero metodo per affermarsi. Ci si preoccupa dei diritti della propria generazione e non di quella che viene dopo. Si ragiona quasi sempre in termini di “fare parte” senza “sentirsi parte”.
Questi comportamenti che sono diffusi purtroppo nel pubblico (compresa evidentemente l’università pubblica) hanno un doppio effetto deleterio quando vengono palesati di fronte ai giovani, perché oltre alla cancellazione dei comportamenti virtuosi all’interno della organizzazione generano anche un inquinamento dei rapporti nei confronti dei pilastri sociali al centro della formazione: le famiglie, e naturalmente gli studenti stessi. È necessaria una solida iniezione di capitale sociale nella scuola pubblica, attraverso il ripristino di programmi più stringenti di educazione civica o di “cittadinanza e costituzione” come la si voglia chiamare, ma soprattutto con la rinnovata attenzione della scuola pubblica verso i temi della lotta alla diseguaglianza ed alla emarginazione sociale. Un esempio che riguarda Grosseto: la nuova amministrazione di destra ha segnato una discontinuità sull’impegno per la legalità non rinnovando, una delle prime azioni dopo l’insediamento della giunta, la propria adesione ad Avviso Pubblico. Io considero questo un grave errore, in un territorio come Grosseto già più volte preda di pericolose azioni di penetrazione delle nuove criminalità. Ma se vi fossero ampi cartelli di associazioni e di istituzioni culturali a premere sul tasto del bisogno di legittimità, forse sarebbe più facile aprire una breccia nella resistenza di chi ha indotto la giunta cittadina a questo tipo di decisione.
La seconda condizione risiede nel rapporto difficile tra gli Italiani e le informazioni. I nuovi media hanno soltanto accelerato il distacco, già avviato da tempo, tra opinione pubblica e volontà di conoscenza. Su internet si guardano le figure, ma non si legge. E l’approfondimento viene lasciato ai campioni della vocalità televisiva, anch’essi più preoccupati di colpire subito il bersaglio sensazionalistico che non di fornire qualche strumento di robusta conoscenza dei fatti. Vi sono, è evidente, rimarchevoli eccezioni. Ma il panorama è desolante sotto il profilo della capacità di trasferire i valori di una conoscenza eticamente sostenibile e rispettosa delle evidenze portate dai soggetti e paradigmi antagonisti. Penso che l’elite ristretta degli opinion makers debba essere chiamata in causa ma, di nuovo, il problema interessa un novero più vasto di soggetti. Ovvero, tutti quelli che in un modo o l’altro vivono di comunicazione, di informazione (compresi i cittadini più attivi nel citizen journalism e sui social). Penso anche alla galassia di associazioni culturali troppo “partigiane” e ripiegate esclusivamente sulla propria “missione”, magari solo al fine di mantenere qualche piccola sine cura. Penso allo sport. Penso ai sindacati. Penso anche al terzo settore. È difficile immaginare oggi un solo settore dove non vi sia un problema di sostenibilità etica. Non perché siano diventati cattivi tutti i dirigenti pubblici e di associazioni attive nella sfera pubblica. Ma perché un mondo cattivo (dove tutti siamo un po’ più incattiviti) impone loro di alzare la guardia. E in un contesto dominato da opacità e accomodamento, la destra fascista può imporre il suo mito più falso: quello di un ordine necessariamente sbandierato perché più l’ordine è “esplicito” (oppure “violento”) e più paga perché “ripulisce”.
Sappiamo che la democrazia ha tra le sue componenti la “gentilezza” della politica, perché chi è democratico non può mai “rimuovere” il proprio avversario. Sappiamo che le soluzioni facili, dalla pena capitale, agli strumenti e alle politiche più severe di limitazioni della libertà, hanno comportato fallimenti pedagogici tangibili, mentre hanno avuto grande successo nelle dittature. Dobbiamo però insistere su questi dati, per renderli diffusi e per rovesciare le fake news che albergano oggi nei siti e nelle urla dei populisti, degli xenofobi, dei razzisti e degli ultra-sovranista. Che invece sono costruite su narrazioni opposte. Quasi sempre false.
Da ultimo, lascio la condizione che mi pare decisiva per spiegare alcune tendenze oggettive di un nuovo consenso verso gli estremisti di destra, compresi quelli apertamente in conflitto con la natura anti-fascista della nostra costituzione, “sopportati” anche da alcuni soggetti della destra che governano molte città. Si può definire questa condizione come la “propensione alle teorie cospirative”. Sta crescendo, in Italia come in altre democrazie – soprattutto tra giovani, precari, e negli strati non scolarizzati e periferici del sistema sociale – la tendenza ad affidarsi all’idea che tutto quel che viene dal sistema non è affidabile perché è tutto “falso”.
Ora la domanda è: chi si avvantaggia con la crescita di un pubblico così al tempo stesso credulone e antagonizzato? La risposta ad oggi è che un leader furbo e potente ha tutto da guadagnare investendo sulla teoria della cospirazione. La campagna elettorale di Trump costituisce un esempio paradigmatico di discorso politico basato sulla cospirazione: “non ci si può fidare di quelli ” recitava il tycoon durante la sua marcia trionfale verso il big Tuesday di novembre: che si tratti dei politici di Washington (certo non privi di colpe), dei media ufficiali (certo tutt’altro che obiettivi), degli scienziati (non sempre rigorosi, certamente), e anche dei campioni della cultura nazionale (effettivamente da sempre “schierati” negli Usa in modo non gaussiano rispetto all’offerta politica), la campagna di Trump ha dimostrato che criticando una serie di attori – ognuno dei quali, ribadisco, sicuramente suscettibile di critiche si convince la pancia di un paese sostanzialmente ignorante come gli Usa ad eleggere un presidente mettendo assieme le aspettative più diverse. Ne ricordo soltanto tre solo titolo di esempio: zittire questi fanatici che pensano che il climate change esista davvero, smettere di spendere in armamenti dal momento che gli Usa devono disimpegnarsi, chiudere le frontiere ma in modo selettivo, per esempio escludendo islamici e messicani.
In Europa, dove i partiti esistono ancora (e possono diventare sette), l’appeal dei leader politici è superiore a quello dei businessmen, e dove il mito del superamento della plutocrazia (oggi sospinto dall’antieuropeismo) costituiscono forti variabili intervenienti, temo che i sostenitori della teoria della cospirazione possono costituire una riserva di caccia soprattutto per i nuovi imprenditori della destra neo-fascista. D’altra parte gli storici ci hanno insegnato che la critica alle bugie della democrazia si connotò come il brodo primordiale comune per la genesi di regimi autoritari strutturalmente diversi – come il regime di mobilitazione fascista, i regimi burocratico-miliziani di Franco e di Salazar, o i tipici regimi golpisti dei militari in Grecia.
Dunque, la teoria della cospirazione deve essere combattuta con fermezza, e non cavalcata dai nuovi soggetti politici che tengono alle regole democratiche. E l’unico modo che abbiamo, a partire dal territorio, è di lavorare sui gruppi sociali più gracili, quelli che menzionavo prima. Per stipulare una assicurazione collettiva contro i nuovi fascismi è necessario favorire una piena socializzazione dei giovani, delle donne che non lavorano, dei ragazzi delle nostre periferie, in modo da garantire in loro una minima fiducia nella sfera pubblica e in chi la rappresenta.